Un network di 8 ospedali pubblici, da nord a sud, continua a lottare contro la sterilità nonostante l’emergenza Coronavirus. Oltre metà dei pazienti è già entrata nel programma
Si chiama “Smart PMA” il progetto tutto italiano che coinvolge otto tra i più importanti centri sanitari pubblici di Procreazione medicalmente assistita. Ideato dall’Azienda Ospedaliera “San Giuseppe Moscati” di Avellino, soggetto coordinatore e primo promotore, risponde all’urgenza di non abbandonare in tempi di Covid-19 i pazienti affetti da sterilità in trattamento sfruttando l’uso della telemedicina.
Coinvolti dall’ospedale campano, hanno attivato il servizio il Policlinico San Martino e l’Ospedale Evangelico di Genova, il Policlinico Sant’Orsola di Bologna, l’Ospedale Sandro Pertini di Roma, l’Ospedale di Conversano (Asl Bari); e da oggi si sono uniti i due centri lombardi: l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e l’Ospedale metropolitano Niguarda di Milano.
Controlli e consultazioni in videochiamata per le coppie in lista d’attesa e una “finestra informativa” sempre attiva per chi ha urgenze, indipendentemente dalla sede. Al Moscati di Avellino l’iniziativa è attiva già dal 6 marzo: il dottor Cristofaro De Stefano, responsabile dell’Unità Operativa di Fisiopatologia della Riproduzione, ha raccontato il progetto a Sanità Informazione.
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Dottore, com’è nata l’idea di “Smart PMA”?
«È nata da una priorità, come spesso accade in ospedale. Non potevamo sospendere l’attività assistenziale ai pazienti, alle coppie con il problema della sterilità. Tuttavia i trattamenti di fecondazione assistita non rientrano, per istruzioni del Ministero della Salute e anche a livello aziendale e regionale, nelle procedure urgenti. Ma noi non potevamo chiudere la porta e basta, dovevamo dare una risposta ai nostri assistiti. La telemedicina ci è venuta in aiuto, un modo per seguirli senza venire direttamente in ambulatorio».
Quindi la messa in pratica è stata immediata?
«Ci siamo attivati già dal 6 marzo. In qualche giorno abbiamo definito i percorsi per la sicurezza e la privacy dei pazienti, che è uno degli argomenti più rilevanti nei colloqui effettuati via web. Da qui è nata l’idea di estendere l’iniziativa a una rete di ospedali pubblici che si occupano di procreazione assistita, in maniera da condividere aspetti, modulistica e procedure e creare un vero e proprio network».
Una risposta alle difficoltà create dal virus, ma non solo?
«Non escludiamo la possibilità di perfezionare questa tipologia di consultazione anche per il futuro, per poter alleggerire anche nei prossimi mesi il numero di accessi dei pazienti nei centri. Va tenuto conto che la medicina della riproduzione non si trova sempre vicino casa, spesso i pazienti si spostano anche da una regione all’altra per raggiungere i centri. Questo tipo di sperimentazione potrà essere senz’altro utile per il futuro».
Quali difficoltà stavano attraversando i pazienti?
«Ci sono due aspetti da valutare, uno è sicuramente quello del disagio. Sopratutto nel pubblico, le coppie hanno un percorso che è marcato da liste di attesa e indagini preliminari. La condizione di sterilità è molto impegnativa dal punto di vista emotivo, spesso i pazienti vengono da precedenti esperienze negative e ci sono storie molto forti. Era doverosa una risposta che permettesse ai pazienti di non sentirsi in mare aperto senza un riferimento».
Ed il secondo aspetto?
«Il secondo aspetto è legato all’efficacia ed efficienza dell’aspetto sanitario. È vero che queste non sono procedure urgenti, però sono procedure in cui il fattore tempo resta determinante. Purtroppo le coppie, specialmente le donne, arrivano a fare questi trattamenti in avanti rispetto all’età riproduttiva, in alcuni casi anche di molto. L’età media è superiore ai 35 anni. Rinvii di 6 o 8 mesi sono significativi dal punto di vista della prognosi del risultato finale che queste coppie possono raggiungere. Tutto ciò può essere mitigato dal fatto che durante questo periodo un contatto costante più vicino possibile ci permette anche di valutare nuovi esami o terapie complementari, cioè di portare avanti il percorso del trattamento e non restare fermi al giorno zero, così da riaprire in condizione di perfetta efficienza. Un’attenzione alla qualità della prestazione sanitaria».
Come gestite le necessità specifiche dei pazienti?
«La telemedicina può essere molto personalizzata. Ci sono coppie che hanno già iniziato dei trattamenti e avevano solo bisogno di definire il piano terapeutico e i farmaci, con i quali la conversazione può essere solamente interlocutoria. Mentre ci sono coppie che sono all’inizio del percorso, con cui va definito anche l’aspetto diagnostico e l’indicazione dei trattamenti, quindi potrebbero aver bisogno di più di un colloquio via web. Ad alcuni di loro, prima di chiedere di venire da noi per la visita, possiamo chiedere di effettuare degli esami vicino casa».
Quali riscontri avete avuto finora?
«Il fatto di poter conversare con il centro medico scelto ha costituito un segno positivo. Noi abbiamo chiamato i pazienti che avevamo in agenda proponendo la videochiamata e inizialmente la percentuale di adesione era piuttosto bassa, ma mano a mano sta crescendo. Adesso siamo circa alla metà dei pazienti che accettano di fare counseling in videochiamata. Sarà perché ne siamo noi stessi più convinti, però il sistema gira, il fatto che ci sia una rete di ospedali unita in questo progetto dà un livello di fiducia maggiore ai pazienti, che si sentono di far parte di una comunità. Diciamo che è un’esperienza entusiasmante quella che stiamo vivendo noi, al di là di ogni aspettativa che potevamo avere. Nei nostri ospedali la vita quotidiana è cambiata radicalmente in questi giorni e quindi dare un segnale, una lucina accesa proiettata nel futuro, è straordinariamente importante».
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