Il neurochirurgo: «Oltre alla carenza di acido folico, esistono altri fattori di rischio per l’insorgenza della spina bifida come l’esposizione ad agenti teratogeni o ad alte temperature»
Un mese fa è nata Marta (il nome di fantasia), una bambina operata nel grembo della madre a 25 settimane di gestazione affetta da mielomeningocele lombosacrale, una forma di spina bifida. È il secondo caso di intervento in utero su un bimbo affetto da spina bifida alla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, il primo risale ad agosto 2020. Non tutti i casi di spina bifida, infatti, possono essere trattati con un intervento in utero e l’operazione chirurgica non è mai totalmente risolutiva, né scevra di rischi sia per la madre che per il suo bambino.
«Non tutte le spine bifide sono uguali. La gravità della malformazione è correlata alla presenza di altre anomalie del cervello, del midollo, genetiche o viscerali. Soprattutto è il punto in cui è localizzata a fare la differenza: i difetti cervicali non sono candidabili alla chirurgia in utero». A spiegarlo, in un’intervista a Sanità Informazione, è il professore Flavio Giordano, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neurochirurgia funzionale e dell’epilessia e del centro Spina Bifida e Idrocefalo dell’AOU Meyer IRCCS di Firenze, membro del Comitato Scientifico dell’Associazione Spina Bifida Italia ODV.
Per fare maggiore chiarezza, partiamo dalla definizione. «Spina bifida è un termine generico con cui si definiscono le malformazioni del midollo spinale e dei suoi involucri, anche definite Difetti del Tubo Neurale (DTN) – spiega Giordano -. Anche se, di solito, chi lo utilizza si riferisce alla forma più grave, chiamata mielomeningocele, mielocele, spina bifida aperta o cistica. È su queste che oggi è possibile considerare la chirurgia fetale, in utero. Altre malformazioni meno gravi e meno invalidanti di quelle che derivano dal mielomelingocele sono la spina bifida occulta o chiusa. Queste forme possono essere trattate chirurgicamente dopo la nascita, decidendone la tempistica in base all’età del bambino ed al suo quadro clinico»
Negli anni ‘70 gli importanti studi epidemiologici di Nevin in Irlanda, avevano rilevato che nelle famiglie irlandesi dove la dieta era costituita quasi esclusivamente da patate, soprattutto fra i ceti medio-bassi, vi era un’altissima incidenza di spina bifida aperta. «In tutte queste famiglie – racconta il professore – c’era almeno un bambino nato con questa malformazione. Da qui dedusse che la carenza di acido folico nella dieta materna era uno dei principali fattori di rischio». Deduzione che tuttora trova conferma: «Da quando è stata migliorata la dieta delle donne, più di recente anche con un supplemento di acido folico almeno un mese prima del concepimento e almeno nei primi tre mesi di gravidanza (0,4-0,5 mg/die, da aumentare a 4-5 mg in presenza di pregressa spina bifida nell’anamnesi familiare), l’incidenza di spina bifida è via via calata», dice Giordano.
La collaborazione della Associazione Spina Bifida Italiana (ASBI), presieduta da Maria Cristina Dieci, e dell’Associazione Toscana Spina Bifida e Idrocefalo (ATISB), presieduta da Marco Esposito, ha permesso una capillare informazione e divulgazione ai fini della prevenzione primaria. Oltre alla carenza di acido folico, esistono altri fattori di rischio come l’esposizione ad agenti teratogeni (composto, sostanza o condizione in grado di indurre alterazioni del normale sviluppo del feto, ndr) o ad alte temperature. «Quest’ultimo aspetto in particolare riguarda soprattutto l’Africa equatoriale, dove c’è un incidenza altissima di spina bifida aperta: è abitudine che le famiglie si riuniscano la sera attorno ai falò, e questa esposizione ad alte temperature aumenta il rischio di spina bifida», commenta il neurochirurgo. Altre cause sono state individuate a livello genetico: «I ricercatori francesi hanno identificato una serie di geni appartenenti alla famiglia PAX che intervengono nelle fasi precocissime di tubulizzazione della placca neurale o neurulazione primaria, che avviene tra il 15 e il 20esimo giorno di vita dal concepimento, epoca gestazionale in cui si genera l’errore che causa la spina bifida», aggiunge Giordano.
«La diagnosi, di solito, viene fatta durante l’ecografia morfologica che permette di identificare i segni diretti, ovvero il difetto del rachide, e quelli indiretti, tra cui l’idrocefalo. Queste anomalie sono identificabile già tra la 18ma e la 24ma settimana di gestazione. Di fronte ad un sospetto di spina bifida è opportuno fare una risonanza magnetica fetale che permette di identificare meglio la tipologia e gravità della malformazione, valutando la presenza di quei pre-requisiti necessari per effettuare un intervento correttivo in utero», spiega lo specialista
L’unico studio randomizzato esistente sull’efficacia di questa tipologia d’intervento è il MOMS del 2011 (MOMS – Management of Myelomeningocele Study di Adzick e coll. N Engl J Med 2011 Mar 17; 364(11): 993-1004) è stato condotto in Nord America. «Alla ricerca hanno preso parte due coorti di mamme che avevano in grembo feti con spina bifida: alcuni sono stati operati in epoca prenatale ed altri dopo la nascita. I migliori esiti nei bambini operati in utero sono stati immediatamente evidenti, tanto che lo studio è stato interrotto e i ricercatori sono arrivati alla conclusione che intervenire in epoca prenatale può migliorare la qualità di vita del nascituro. Questi bambini – dice Giordano – non avevano problemi di motilità, né presentavo idrocefalo, l’unico difetto non evitabile era la vescica neurologica, una disfunzione non correggibile in alcun caso».
«L’intervento andrebbe programmato dalla 19 alla 25esima settimana di gestazione, poiché lo scopo è anche quello di proteggere il liquido neurale del feto esposto dal liquido amniotico che, avendo un’azione corrosiva, contribuisce a danneggiare ulteriormente il midollo. Il danno creato dalla spina bifida, infatti, è duplice. Uno è intrinseco, malformativo, dovuto al tessuto nervoso che non si tubulizza, non si chiude, non si forma normalmente. Un altro invece è dato dall’immersione del tessuto nervoso nel liquido amniotico. Con la chirurgia in utero il difetto viene precocemente chiuso proteggendo l’esposizione tossica al liquido amniotico e poi riesce a prevenire alcune complicanze della spina bifida, come l’idrocefalo. Nel nostro Paese l’incidenza di nati con spina bifida è molto bassa, sia perché grazie alla supplementazione con acido folico si verificano molti meno casi, sia perché la scelta più diffusa è l’interruzione di gravidanza. Resta alta l’incidenza nei Paesi africani per la alimentazione non sempre adeguata e – conclude lo specialista- spesso carente di acido folico ».
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