Impegnate a prendersi cura dei figli, degli anziani e delle persone con disabilità, penalizzando lavoro e benessere personale. Situazione aggravata dalla chiusura delle strutture e dalla DAD. Solo il 22% di loro dichiara di essere aiutata dal partner, racconta il presidente WeWorld Marco Chiesara
Con l’attività di caregiving che ricade quasi esclusivamente su di loro, sono le donne ad aver subito maggiormente le conseguenze emotive ed economiche della pandemia. Nei mesi di lockdown vari studi ne avevano dato prova, ma ora a metterlo nero su bianco è un’indagine Ipsos per WeWorld, onlus italiana che da 50 anni si occupa dei diritti di donne e bambini in 29 Paesi del mondo. È stato proprio il presidente WeWorld, Marco Chiesara, a raccontare “Donna e cura in tempo di Covid-19” a Sanità Informazione.
Con la chiusura delle scuole e le difficoltà riscontrate nel supporto alle persone con disabilità e agli anziani, il 61% delle donne dichiara di aver dovuto gestire la famiglia da sola. Una percentuale che arriva al 71% nella fascia d’età tra i 31 e i 50 anni. Al Sud solo il 7% delle donne cede ad altri l’attività di caregiving, mentre al Nord un 16% dell’aiuto è fornito dai nonni, il cui compito è stato molto penalizzato durante la pandemia. Nella fascia 18-30 anni, l’85% delle donne si prende cura dei figli senza aiuti. Solo un 15% dichiara di condividere le incombenze con il partner.
Sulla divisione del lavoro con gli uomini, si nota come il 47% di loro dichiari di essere caregiver insieme alla donna, contro il 22% delle donne che fa un’affermazione simile. «C’è una percezione distorta di genere sul carico di lavoro – spiega Chiesara –. A domanda gli uomini ritengono di contribuire ma, al contrario, 2 donne su 3 sentono tutto il peso del lavoro di cura. Il tema di genere è un tema culturale e questa ne è un’ulteriore dolorosa conferma».
Come caregiver sulle donne grava anche l’assistenza dovuta alla didattica online. Scuole, nidi e asili sono chiusi da tre mesi e accompagnare i bambini nei compiti a casa e nelle attività è stato un dovere femminile per oltre il 60% delle donne. Una necessità legata a doppio filo con le difficoltà lavorative e con l’insoddisfazione dovuta agli aiuti statali.
«Non si sentono aiutate a sufficienza – prosegue Chiesara – e ancora molto c’è da fare, in questo momento la risposta dello Stato è stata carente. È una conseguenza del fatto che l’aiuto dato ai ragazzi è stato insufficiente ed è ricaduto sulle donne». Solo l’1% delle famiglie dichiara che si avvarrà del bonus babysitter e lamenta l’abbandono di chi gestisce tutto da casa.
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In occasione della quarantena, WeWorld ha attivato una helpline dedicata alle donne in difficoltà. Chi ha chiamato ha denunciato senso di oppressione, ansia e disagio nel gestire il carico fisico e mentale che la situazione ha richiesto a loro in esclusiva. «Per le donne che vivono situazioni di violenza – aggiunge il presidente – non solo fisica, ma psicologica ed economica, il fatto di stare chiuse in casa e non poter uscire ha peggiorato la situazione. Si sono trovate forzatamente con l’autore della violenza».
«Il coronavirus ha agito come amplificatore di una situazione già presente – prosegue – e purtroppo spesso ignorata: il senso di oppressione e il carico familiare e di cura delle donne hanno infatti radici profonde nel nostro contesto culturale». Sono sempre le donne le prime ad aver rinunciato al lavoro per prendersi cura dei cari. Una su due ha rinunciato a un nuovo progetto, contro due uomini su cinque. Nella fascia 31-50 anni il 40% ha annullato o posticipato la ricerca di lavoro e il 38% rimanda attività già programmate per i figli.
WeWorld si rivolge ora direttamente alle istituzioni. «Chiediamo – spiega il presidente – di coinvolgere nella ripresa il terzo settore che ha dato prova di essere radicato nel territorio e di aver fornito uno strumento fondamentale per affrontare tutti i disagi del lockdown. Vogliamo nuova attenzione ai servizi dell’infanzia, alla fascia 0-5 anni, lavorare per riaprire le scuole con un approccio consapevole. Se deve essere DAD, che ci sia attenzione per chi non riesce ad accedervi, quella fascia di popolazione che non ha gli strumenti per seguirla, come corsi di educazione digitale».
Richieste che nascono dalla necessità di superare la disparità nelle attività di caregiving e di evitare uno scenario peggiore di quello che la pandemia ha delineato. «Faccio fatica a pensare – conclude Chiesara – a quali possano essere le conseguenze se non si invertisse la rotta, non dobbiamo nemmeno prendere in considerazione la possibilità di non farlo. Non può e non deve succedere».
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