In corso a Roma il convegno internazionale di suicidologia e salute pubblica. Pompili (Sapienza): «Attenzione a chi parla di suicidio, soffre di abitudini alterate del sonno o si cimenta in sport ad alto rischio». Rihmer (Università Semmelweis di Budapest): «Il suicidio si può prevenire come il trattamento dell’ipertensione previene l’ictus»
«In Italia ogni anno ci sono circa 4200 casi di suicidio, ma la gran parte di questi è prevenibile. È tuttavia necessaria una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica e tra i professionisti della salute». È il messaggio inviato tramite i microfoni di Sanità Informazione da Maurizio Pompili, professore di psichiatria e suicidologia presso l’Università Sapienza di Roma e direttore del servizio per la prevenzione del suicidio dell’ospedale Sant’Andrea, che ha organizzato il Convegno internazionale di suicidologia e salute pubblica in corso all’Aula Magna della Sapienza. «Questa due giorni – ha proseguito Pompili – si propone proprio di sensibilizzare e fare cultura nell’ambito della prevenzione del suicidio e riconoscere quel dolore mentale che può diventare insopportabile quando l’individuo non ce la fa più e sceglie di morire. Ma queste persone, questo piccolo paese che ogni anno se ne va via, non vorrebbero morire ma vivere, se qualcuno alleviasse questa sofferenza».
I lavori sono stati introdotti dal professor Mario Maj, psichiatra, che ha evidenziato la scarsa attenzione del ministero della Salute nei confronti della prevenzione del suicidio: «Se cercate on line – ha detto durante il suo intervento – risulta solo un documento del ministero dedicato al tema. Risale al 2008 e su Google risulta “P. del Suicidio”, come se P. fosse il nome dell’autore e del Suicidio il cognome. Eppure il suicidio è prevenibile, e la prevenzione funziona». Quindi, ha presentato ai colleghi un dato allarmante: «Il 90% delle persone che prende una decisione tanto estrema soffre di una malattia mentale non diagnosticata, non trattata o trattata in modo inadeguato».
I disturbi psichiatrici non sono, tuttavia, gli unici fattori che possono portare al suicidio: «È un fenomeno multifattoriale il cui peso può variare molto – ha spiegato Pompili -. Non ci sono fattori che coprono un ruolo esclusivo, ma tutti coprono un ruolo contribuente. Alcune volte può prevalere l’effetto di perdite di persone care, di denaro o di lavoro; altre volte le malattie fisiche possono aumentare il rischio, così come problematiche legali o coniugali, ma anche la familiarità può avere un ruolo importante. Sono tutti fattori che possono intersecarsi e determinare un mix pericoloso».
È difficile quindi capire quale paziente può avere tendenze suicide, ma ci sono alcuni campanelli d’allarme che dovrebbero allertare familiari e personale sanitario: «Non bisogna mai sottovalutare le comunicazioni inerenti la morte, il voler morire, il non farcela più o il nominare la parola suicidio nell’ambito di altre criticità – ha evidenziato il professor Pompili -. Vi possono essere alterate abitudini del sonno, le persone possono prendere provvedimenti come dar via cose care, fare una sorta di testamento, mettere apposto i propri affari; possono avere cambiamenti di umore repentino, aumentare l’abuso di sostanze, sentirsi intrappolati, non vedere alcun futuro, oppure cimentarsi in sport ad alto rischio».
Eppure prevedere il suicidio è molto difficile. Proprio su questo si è concentrato l’intervento di uno dei relatori della sessione internazionale del convegno, il professor Zoltan Rihmer dell’Università Semmelweis di Budapest: «Prevenire il suicidio è possibile, prevederlo no – ha dichiarato a Sanità Informazione -. In molti casi, nonostante la presenza di diversi fattori a rischio suicidio, la persona decide di continuare a vivere; al contrario ci sono pazienti che pongono fine alla propria vita nonostante siano presenti solo pochi fattori che indicano il rischio di suicidio». Altrimenti, come ha detto Rihmer dal palco, la Terra sarebbe popolata solo da persone felicemente sposate, con un bel lavoro e figli meravigliosi, ricche, religiose e che vivono in una società funzionante e pacifica. «Allora – ha proseguito -, non potendo sapere quali pazienti svilupperanno tentativi di suicidio, è necessario trattare tutti i pazienti e prevenire così molti casi. È come l’ipertensione: se non viene curata, può insorgere l’ictus; se viene curata, il rischio di ictus è molto inferiore. Ma solo al 20-25% dei pazienti con ipertensione verrebbe l’ictus in assenza di cure contro l’ipertensione, eppure li curiamo tutti, non sapendo chi è più a rischio. Sarà un ragionamento troppo semplice e troppo semplificato – conclude -, ma in alcune situazioni, per uscirne, ne abbiamo bisogno».