Sostenere psicologicamente il malato e farsi ascoltare come caregiver, un passaggio importante per affrontare la malattia di Huntington che troppo spesso non si coltiva per questione di costi. Con Elisabetta Caletti (Huntington Onlus) parliamo dell’importanza di non restare soli con la malattia rara
Quando si affronta una malattia rara con conseguenze importanti sul fisico, il primo pensiero va a tutte le funzioni motorie che mano a mano si perdono insieme all’autonomia. Con la malattia di Huntington, che in Italia colpisce circa 6.500 persone, sottovalutare i risvolti psicologici sarebbe però un grave errore. Si tratta, infatti, di una patologia che si manifesta con forza in età adulta, dopo che il paziente ha vissuto esperienze e realizzato sé stesso.
Riuscire a comprendere che la malattia mano a mano gli toglierà queste conquiste è una delle pratiche più difficili al mondo, per sé e per le persone che gli sono accanto. Un supporto psicologico e psichiatrico può fare la differenza tra un dolore senza uscita e un’accettazione concreta di quello che sta succedendo al paziente. Ne è convinta Elisabetta Caletti, a sua volta psicoterapeuta e presidente dell’associazione Huntington Onlus, che Sanità Informazione ha raggiunto.
Una diagnosi per malattia di Huntington porta con sé, ci spiega, un cambiamento nella quotidianità praticamente immediato, sebbene il passaggio dall’indipendenza alla dipendenza sia poi lento. «Si può instaurare da subito un’intensa crisi psicologica e familiare – racconta Caletti – caratterizzata da sentimenti di tristezza, rabbia, paura e colpa. La paura di un pericolo incombente e la certezza che prima o poi arriveranno tutta una serie di sintomatologie». La dottoressa parla di una vera e propria “idea di morte”, che può radicarsi con forza e annebbiare la mente del malato e della famiglia intorno a lui.
«Aumentano – inoltre – le preoccupazioni per il futuro, aumentano i problemi legati al lavoro per cui qualcuno potrebbe essere rimpiazzato nel proprio posto, e aumentano anche le difficoltà economiche. Non solo il lavoro, ma i costi che si sostengono per esami, trattamenti, cura e trasporto per andare verso uno dei centri di eccellenza».
Le famiglie subiscono questo impatto a volte chiudendosi in sé stesse, avvolgendo la tristezza con altra tristezza. «Il coniuge sano ha difficoltà a comunicare con il malato – spiega Caletti – e così il malato ha difficoltà a comunicare con il suo compagno. Perciò bisogna imparare ad esprimere diversamente i nostri sentimenti. Iniziare a capire meglio il malato e cosa desidera, essere più flessibili. Penso che sia importante imparare ad essere compassionevoli più che empatici, anche se questo è un termine usato con una connotazione negativa. Compassione significa empatia e partecipazione, consapevolezza della necessità di adattarsi a ciò che c’è».
Così i figli, spesso messi al riparo da troppo dolore con poche informazioni, rischiano di sviluppare rancore verso il genitore malato che si allontana da loro. «I ragazzi dovrebbero essere coinvolti, facendosi aiutare da un professionista. Hanno delle capacità che noi non conosciamo nemmeno e in più possono portare anche serenità perché possono essere coinvolti in piccole cose: nella compagnia per una visita, senza diventare pesanti ma coinvolgendoli».
L’Huntington Onlus, di cui Caletti è presidente, offre per questo incontri di auto-mutuo-aiuto, «oppure mettiamo a disposizione il nostro psicologo per sostegno individuale ma anche familiare. Sarebbe bello poter aumentare questo servizio in materia di approccio multidisciplinare verso questa patologia. Psicologo, psicoterapeuta e psichiatra vengono spesso dimenticati in questo processo, forse perché troppo costoso».
Il coinvolgimento del caregiver nel processo psicologico è essenziale per evitare il vortice di disturbi psichici che spesso anticipano la malattia. Segni che un familiare può cogliere e capire prima di altri. «L’irritabilità è un sintomo importante – chiarisce Caletti -, sembra anche precedere i sintomi motori. Può sfociare in rabbia e crisi pantoclastiche, reazioni forti. Abbiamo l’ansia che è legata al decorso e all’involuzione della malattia, che è un’emozione fondamentale nella vita dell’uomo, però in questi casi può assumere una dimensione anche patologica. La persona cambia anche personalità, sembra che sia un altro e questo diventa un vero problema. Infine ci sono apatia, inattività, perdita di peso, segni che assomigliano alla depressione maggiore, per cui è difficile comprendere dove c’è una cosa e dove inizia l’altra».
Nel caregiver può partire un processo ulteriormente complesso. «Il malato diventa ostile, si rifiuta, è instabile e il caregiver si sente inadeguato, inutile; il malato è confuso e ambivalente e noi ci percepiamo come incapaci di amare e sentiamo una frustrazione; il malato esprime pensieri negativi e autolesivi e lì noi ci sentiamo tristi e depressi. L’unica cosa da fare è cercare aiuto e stare uniti con gli altri: una rete è fondamentale. Non chiudersi in casa, non rimanere tra le quattro mura e non tenersi tutto per sé, ma sforzarsi di continuare a fare delle attività. Non lasciare che la persona amata si isoli e come caregiver non isolarsi a sua volta».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato