Una testimonianza da un medico italiano a lavoro in Svizzera. Per rispondere alla mancanza di personale, medici positivi e asintomatici rimandati in reparto
Con più di diecimila casi giornalieri, la Svizzera ha segnato un nuovo record di contagi da Covid e se il ministro della Sanità Alain Berset in tv cerca di smorzare i toni, parlando di situazione tesa ma ancora non al collasso, i medici denunciano: «Noi costretti in corsia se pur positivi asintomatici». Un grido di allarme che Alexandre Fornasier, medico italiano impiegato nel Cantone Vallese, tra i più colpiti dal virus, ci racconta in una lunga telefonata. «È un tentativo fatto per rispondere alla criticità della mancanza di personale che si fa sentire ogni giorno di più – ammette – ma altresì è una scelta che preoccupa noi sanitari che siamo costretti a lavorare a fianco di colleghi con tampone positivo».
Quali potranno essere le conseguenze della scelta di immolarsi per la causa sono un’incognita, ma Alexander, di formazione italiana, non ci sta e aggiunge: «Qui i sindacati non hanno forza, sono meno presenti ed il popolo rispetta le regole imposte, confermando fiducia nelle istituzioni. Dicono che non dovremmo avere grandi problemi, ma io da italiano non condivido».
Alexander è arrabbiato, ma quali sono le motivazioni di una soluzione tanto estrema? «Non è una questione di carica virale più bassa in chi non ha sintomi evidenti – spiega – qui è più forte la convinzione che un’adeguata e sistematica protezione con mascherina, guanti e prodotti disinfettanti possa contenere i contagi. La prova del nove sarà nei prossimi quindici giorni. Se le previsioni delle istituzioni si riveleranno fondate, allora potranno essere precursori di un modello di convivenza con il virus da esportare. Ma se così non sarà, tra i camici bianchi si potranno moltiplicare i contagi con il rischio concreto di collasso degli ospedali pubblici».
«Le terapie intensive ancora reggono, ma fino a quando? – si domanda il medico italiano – se in questa seconda ondata sembriamo più preparati è perché abbiamo studiato le mosse del virus, sappiamo come si comporta ed abbiamo preso le prime contromisure. Come una politica di trasferimento dei malati Covid dalle zone più stressate a quelle meno raggiunte dai contagi. Questa politica ha consentito di ammortizzare poco l’onda d’urto. Ma non basta». La cartina dei contagi in Svizzera mostra una concentrazione contenuta in alcuni Cantoni, mentre in altri, in particolare al confine con Italia e Francia si denuncia una fragilità maggiore.
«Il prossimo passo sarà di chiudere i reparti per mancanza di personale», ribadisce Alexander, che ritorna su quello che è il vero grande problema nell’era Covid. «Nel mio ospedale a breve saremo a corto di personale da destinare ai pazienti non Covid che ancora ci sono e sono molti. Ritarderemo visite e appuntamenti, ma ci sono situazioni che non si possono penalizzare. Come nella terapia del dolore dove abbiamo una serie di pazienti estremamente critici che non possono essere rimandati e che saranno le nostre priorità. Mentre i casi cronici gestibili che non hanno bisogno di cure urgenti verranno rimandati, non senza conseguenze – sottolinea, mentre porta l’attenzione su casi concreti -. Un tumore della pelle di pochi centimetri ad esempio, non a rischio infiltrazioni, verrà rimandato di qualche mese durante i quali la dimensione aumenterà e all’atto l’intervento risulterà più invasivo per il paziente».
Scelte difficili che traslate su altri campi sanitari acquistano toni ancor più dolorosi, come la selezione obbligata dei pazienti da destinare alle terapie intensive. Linee guida che in Svizzera, come in altri paesi europei, sono una realtà. «È un argomento estremamente delicato intorno al quale è stata fatta una speculazione di informazione – sottolinea Alexander -. Nella prima ondata siamo arrivati ad una saturazione del sistema e in quella circostanza si era parlato di medicina di guerra, di selezione di pazienti in maniera cruda. Oggi non siamo a quei livelli quindi usiamo criteri scientifici con il massimo dell’etica e del rispetto delle persone».
«È evidente – conclude – che in Svizzera se si dovesse arrivare ad un collasso delle risorse si potrebbe andare incontro ad un triage “di guerra” dove si darebbe la precedenza a malati con più chance. Ma in questo momento non siamo in questa condizione, anche perché rispetto alla prima ondata cerchiamo di prevenire le conseguenze più gravi come trombo-embolie con nuovi farmaci. Dalla settimana scorsa si parla di una sperimentazione con un anticorpo monoclonale che sembra essere promettente, in attesa del vaccino».
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato