Landi (geriatra): «Se un paziente, pur avendo osservato tutti i criteri di quarantena ed essere stato sottoposto a doppio tampone con risultato negativo, torna a positivizzarsi non è una reinfenzione. Si tratta di frammenti dell’RNA virale non rilevati in precedenza che non sarebbero in grado di replicarsi e di contagiare».
«Un tampone positivo ad un paziente precedentemente dichiarato guarito dal Covid-19 non indica una nuova infezione, ma un prolungamento di quella contratta in precedenza». A puntualizzarlo è Francesco Landi del dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento, Neurologiche, Ortopediche del Policlinico Universitario Gemelli IRCCS e docente della facoltà di Medicina e Chirurgia all’università Cattolica di Roma.
I risultati di uno studio, condotto dallo stesso Landi e diffusi nei mesi scorsi, avevano mostrato che il 16,7% dei pazienti osservati (131 su 22), pur avendo rispettato tutti i criteri di quarantena ed essere stati sottoposti a doppio tampone con risultato negativo, erano tornati a positivizzarsi dopo circa due settimane.
«È importante sottolineare che non si tratta di una reinfenzione – spiega il professore -. Questi pazienti non hanno contratto una nuova infezione da Sars-CoV-2. Attraverso il tampone vengono rilevati, nel tratto orofaringeo e nasale, dei frammenti dell’Rna virale. Frammenti precedentemente non rivelati per una diversa profondità o accuratezza del test effettuato».
La probabilità di risultare nuovamente positivi a Sars-CoV-2 è più alta tra coloro che presentano ancora dei sintomi, in particolare di natura respiratoria. A dimostrarlo lo stesso studio condotto dai ricercatori del Policlinico Gemelli e pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine. Gli studiosi, nel mese di giugno, avevano sottoposto a tampone i pazienti dichiarati guariti e dimessi tra il 21 aprile e il 21 maggio 2020. Fatica e difficoltà respiratorie sono risultate presenti rispettivamente nel 51% e 44% dei casi, il 17% dei pazienti, invece, continuava ad avere tosse.
«Il dato più importante ottenuto dai ricercatori del laboratorio di Microbiologia – continua lo specialista – è che questi pazienti sembrano, meglio usare ancora il condizionale perché parliamo di una malattia nuova dall’andamento non del tutto conosciuto, non essere contagiosi. Questo perché il frammento di Rna rilevato dal tampone, successivo al ventunesimo giorno, non sarebbe in grado di infettare, di entrare nella cellula dell’ospite e di replicarsi. Questa – sottolinea Landi – è l’assoluta buona notizia».
Ovviamente il lavoro di ricerca continua e solo ulteriori evidenze scientifiche potranno trasformare il condizionale in certezza. «Soprattutto – dice il professore – attendiamo nuovi risultati che ci permettano di dare indicazioni più precise ai pazienti sulle reali possibilità che hanno di contagiare gli altri». Intanto, una raccomandazione, senza essere radicali, è d’obbligo: «Chi, dopo la fine della quarantena di ventuno giorni, ha ancora sintomi respiratori ed è positivo al tampone, è meglio che si muova con cautela, rispettando in modo meticoloso tutte le misure di sicurezza attualmente previste».
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