Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia analizza il problema che durante la pandemia ha interessato milioni di cittadini e spiega quali strategie mettere in campo con l’auto di un professionista per sopravvivere allo stress del digitale
Tra gli effetti della pandemia, meno evidenti, ma non per questo trascurabili c’è lo stress determinato da un uso eccessivo di nuove tecnologie. È la sindrome da tecnostress che sembra interessare milioni di italiani costretti dal Covid allo Smart working, al lockdown e agli isolamenti fiduciari. Stili di vita nuovi che in due anni hanno fatto cambiare le abitudini e reso adulti e ragazzi più sensibili agli effetti a lungo termine di un prolungato utilizzo di smartphone, tablet e pc tanto da creare una vera e propria patologia da riconoscere, affrontare e superare. «Solo pochi mesi fa abbiamo iniziato a sentir parlare di metaverso, ovvero la concreta possibilità di trasporre in un mondo completamente virtuale la maggior parte delle nostre attività quotidiane, un mondo che, se ancora oggi è poco più di uno spazio di gioco, in realtà ha segnato un cambio di passo che con la pandemia ha preso il sopravvento – spiega Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia -. E se da un lato il “lavoro agile” è diventato una costante, dall’altra sono numerosi, forse troppi, gli effetti collaterali legati ad una vita davanti allo schermo».
Un utilizzo eccessivo e disfunzionale degli strumenti tecnologici può avere un impatto negativo su atteggiamenti, pensieri, comportamenti. «Una vera e propria dipendenza che molti lavoratori percepiscono come forma di disagio – ammette Parolin – Una recente indagine dell’American Psychiatric Association ha mostrato come il 18% degli adulti statunitensi identifichi la tecnologia come fonte di stress significativa che può portare a sentimenti di impotenza e di frustrazione, con conseguente avversione o fobia per l’uso dei dispositivi».
Dal 2007 il tecnostress è stato ufficialmente riconosciuto come malattia professionale; quindi, le cause e gli effetti rientrano nell’obbligo di valutazione dei rischi previsti dalla legge. È fondamentale dunque riconoscere i sintomi e gli effetti che si manifestano a più livelli e che causano patologie e disturbi differenti. «Sono stati individuati due principali fattori di tecnostress – spiega la presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia – il primo legato alla imponente quantità di informazioni provenienti da più fonti (e mail, messaggi istantanei, WhatsApp) che possono portare ad una eccessiva stimolazione ed affaticamento degli utenti; e il secondo si riferisce alla durata della connessione che a sua volta ha ripercussione sulla mente e sul fisico».
Difficoltà di attenzione, agitazione, tensione muscolare, disturbi del sonno e ansia sono alcune delle possibili conseguenze di questa sempre più attuale patologia che colpisce non solo gli adulti lavoratori, ma anche un numero crescente di giovani e giovanissimi, assorbiti durante la pandemia dalla DAD e dai giochi elettronici divenuti i migliori “amici” durante i mesi di lockdown e di isolamento. «Il fenomeno del burn-out, che tutti conosciamo largamente collegato alle professioni di aiuto, può essere uno degli esiti di un rapporto non equilibrato con la tecnologia: i messaggi, la stabilità dell’immagine/identità sui social network sono alcuni degli esempi che, se parte della nostra quotidianità, possono portarci ad esaurire le nostre risorse».
Il problema è dunque complesso, a volte subdolo perché si annida in diversi comportamenti che possono essere fuorvianti. Per questo l’intervento del professionista è fondamentale. «Il metaverso rappresenta oggi una realtà non più ignorabile -aggiunge – sarà perciò fondamentale pensare e organizzare nuovi strumenti e spazi di ascolto e sostegno per prendersi cura delle conseguenze che il costante uso della tecnologia ha su tutti noi, formulando interventi di prevenzione e cura che tengano conto dell’età dei pazienti, dai bambini fino agli anziani, e dell’ambiente. La figura dello psicologo nelle organizzazioni lavorative, poi, può rappresentare un’utile risorsa, non solo in ambito di intervento, ma anche, e soprattutto, nel programmare azioni di prevenzione, dove una sufficiente educazione dei lavoratori, rispetto a questi fenomeni, può aiutare a segnalare per tempo situazioni di potenziale disagio e ad introdurre interventi efficaci».
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