Terapie intensive a tre punti percentuali dalla soglia critica. «Nei mesi post-lockdown ospedali avrebbero dovuto prevedere un piano b». E sul piano vaccinale: «Inutili nuove strutture in cui fare le vaccinazioni se manca il personale sanitario che deve farle»
Indirizzi uniformi su tutto il territorio nazionale, lockdown da abbinare ad una massiccia campagna vaccinale, rivisitazione urgente del territorio ma anche flessibilità degli ospedali. Sono queste, per Guido Quici (Presidente Cimo-Fesmed) alcune delle cose da fare per cercare di superare con meno danni possibile la terza ondata della pandemia da Covid-19. Cose che evidentemente andavano fatte prima, quando il conto totale dei contagiati e dei morti per coronavirus era sceso ai minimi termini in seguito al lockdown totale di un anno fa.
Perché dopo un anno sembra quasi di stare punto e daccapo, con il numero di contagi in continua crescita e le terapie intensive e sub-intensive sempre più affollate. Il numero di posti letto di terapia intensiva occupati da pazienti Covid−19 in Italia ha infatti raggiunto il 27%, a soli tre punti percentuali dalla soglia critica. Quelli relativi all’area non critica (ovvero i posti letto di area medica afferenti alle specialità di malattie infettive, medicina generale e pneumologia) sono al 31%.
«Ciò che è venuto meno, dal mio punto di vista – spiega Quici a Sanità Informazione –, è che, superata la prima fase della pandemia, quando era oggettivamente difficile districarsi e prendere provvedimenti, abbiamo avuto tutto il tempo per immaginare una programmazione idonea all’apertura o chiusura dei posti letto, intensivi o sub-intensivi, a seconda delle esigenze dettate dal quadro pandemico. Le strutture – spiega – sono in crisi perché non hanno pianificato nulla».
Non bisogna dimenticare poi che le migliaia e migliaia di contagiati di questi giorni sono una fotografia di almeno un paio di settimane fa e che «ci sono tanti asintomatici che magari svilupperanno la patologia tra qualche giorno e che potrebbero, successivamente, andare a riempire ulteriormente le terapie intensive e sub-intensive». O i cimiteri.
La situazione, già grave qualche mese fa (quando, ad esempio, a novembre lo stesso Quici ci aveva spiegato i perché della necessità di un nuovo lockdown nazionale), è peggiorata con l’arrivo della variante inglese, per colpa della quale «abbiamo avuto un incremento esponenziale dei casi». Nel corso di questi mesi sarebbe stato opportuno che «gli ospedali si riorganizzassero e avessero un piano b, il che significa prevedere la possibilità di chiudere velocemente alcuni reparti e riconvertirli in Covid con personale a disposizione. Se lo hanno fatto – spiega Quici –, allora per il momento è possibile gestire la situazione. Se non hanno fatto questo tipo di programmazione è chiaro che stia andando male».
Ma il problema non è solo relativo a pianificazioni e strutture. Esiste un problema anche di personale: «Mesi fa si parlava di incrementare di alcune migliaia di unità i posti letto, ma tutto è rimasto sulla carta. Dal punto di vista pratico, dov’è il personale? È un po’ lo stesso che sta accadendo con il piano vaccinale. Apriamo le caserme e le scuole per fare posto, ma poi le vaccinazioni chi le fa? Purtroppo c’è un problema di risorse umane che sono fondamentali e per questo sono molto amareggiato».
La situazione è dunque questa, ma cosa si può fare ora (ammesso che non sia troppo tardi)? «Sono sempre stato favorevole al lockdown totale. L’ideale, secondo me, sarebbe riproporlo in coincidenza con un arrivo massiccio di milioni di dosi di vaccino. Abbiamo assistito ad un crollo dei contagi nel personale sanitario perché l’effetto del vaccino è stato importante. Dall’altro lato, però, occorre prevedere norme restrittive e serie: se non lo fai le persone possono non rispettarle e tu Stato perdi di credibilità».
In aggiunta a tutto questo, secondo Quici è necessaria una «seria riorganizzazione della rete territoriale e una rivisitazione dell’organizzazione ospedaliera che deve essere flessibile». Solo in questo modo l’ospedale può «adattarsi al mutare delle esigenze imposte dalla pandemia».
È possibile fare tutto ciò in tempi brevi? «Dipende – risponde il Presidente di Cimo-Fesmed –. Se parliamo, ad esempio, di ospedali a padiglioni, ci si può organizzare. Se sono invece ospedali monoblocco diventa tutto più complicato».
Ma, come detto, esiste anche un problema relativo alle condizioni in cui lavora il personale sanitario: «Prendiamo in considerazione l’età avanzata dei medici, la stanchezza di chi lavora giorno e notte in quei reparti e i problemi di burnout che ne derivano. I colleghi sono distrutti, sia fisicamente che psicologicamente. Purtroppo, le persone non percepiscono queste situazioni. Ma non lo fanno neanche i legislatori che dovrebbero prendere provvedimenti unici su tutto il territorio nazionale. Alcune Regioni cercano di passare da un colore con minori restrizioni ad uno che ne ha di più. Altre fanno l’opposto perché hanno imprenditori che pressano. Non è possibile continuare così – conclude Quici –, ci deve essere una indicazione unica che deve essere eseguita nello stesso modo su tutto il territorio nazionale».
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