Secondo uno studio condotto dall’Università di Napoli Federico II in 11 siti sul territorio, l’inquinamento non sarebbe più così diffuso. Ma alcuni esperti avvertono: «Il dato potrebbe essere sottostimato per le caratteristiche degli alberi analizzati»
Un inquinamento non eccessivamente diffuso, ma picchi di concentrazione dovuti anche al forte traffico di veicoli. Questo “raccontano” gli alberi della Terra dei Fuochi, la vasta area che comprende comuni nel Casertano e nel Napoletano, da anni ormai tristemente nota sia per l’accumulo di sostanze tossiche nell’aria e nel sottosuolo principalmente legate alle attività di smaltimento illecito dei rifiuti, sia per il consequenziale incremento di patologie neoplastiche negli abitanti. Proprio in questa zona si è concentrato infatti lo studio di biomonitoraggio condotto in collaborazione tra il gruppo di ricerca del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università di Napoli Federico II guidato dalla professoressa Maria Triassi, e a quello di Botanica e Biotecnologie Vegetali del Dipartimento di Chimica e Biologia “A. Zambelli” supervisionato dal professor Stefano Castiglione.
Lo studio, intitolato “Air quality biomonitoring through Olea europaea L.: the study case of Land of Pyres” e pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Chemosphere, è stato effettuando analizzando gli ulivi della zona, piante sempreverdi e spesso con notevole anzianità, candidati ideali per studi di bioaccumulo di elementi potenzialmente tossici.
Ciò che è emerso da questo campionamento è che, nelle aree indagate, non esistono fenomeni di inquinamento diffuso, ma al tempo stesso sono state evidenziati dei picchi di concentrazione relativi, verosimilmente, a sorgenti di emissioni puntuali. Infatti, i risultati evidenziano come anche nello stesso comune, a volte, esistano delle differenze importanti nelle concentrazioni di alcuni elementi potenzialmente tossici. Inoltre, come riportato nella pubblicazione scientifica, l’area presa in esame è anche molto esposta ad intenso traffico veicolare, fonte di erosione di alcuni componenti veicolari contenenti antimonio, alluminio e diverse leghe.
«Ciò ovviamente non sminuisce l’attenzione doverosa che deve sempre essere riservata non solo alla Terra dei Fuochi – sottolinea l’ingegnere Giovanni Improta, ricercatore presso il Dipartimento di Sanità Pubblica della Federico II – ma in generale alla qualità ambientale di tutte le aree della regione e del Paese interessate da importanti attività antropiche legali e in alcuni casi illegali, così da fornire uno spunto di riflessione che dovrebbe invitarci ad affrontare, trattare e analizzare i problemi ambientali, così come quelli sanitari, con metodo scientifico. Pertanto, è auspicabile approfondire gli argomenti indagati con nuovi progetti di ricerca e studi scientifici che permettano di far luce su aspetti epidemiologici rilevanti ancora non del tutto noti».
«Biomonitorare l’area è sempre e comunque un’ottima cosa – osserva lo scienziato Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine di Philadelphia, da sempre impegnato nel denunciare e analizzare i fenomeni che hanno portato al disastro ambientale nella Terra dei Fuochi -. Noi lo stiamo facendo con la professoressa Adriana Basile, botanica presso il Dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli, analizzando però i muschi i quali, a differenza delle foglie di qualunque specie di pianta superiore, bio-accumulano molto più intensamente gli inquinanti perché assorbono l’acqua e tutti gli elementi in essa presenti (inquinanti compresi) attraverso la loro intera superficie. Nei muschi, inoltre – aggiunge – manca un rivestimento chiamato cuticola che impermeabilizza le foglie. In questo modo non si rischia che gli inquinanti possano essere dilavati portando ad una sottostima del dato».
«L’area della Terra dei Fuochi è molto vasta oltre che fortemente antropizzata – afferma Enzo Tosti, portavoce di Rete di Cittadinanza e Comunità e membro del comitato Stop Biocidio – coinvolgendo due milioni e mezzo di persone. Vero è che non tutta la zona è interessata in modo omogeneo dal fenomeno: ci sono Comuni letteralmente disastrati dal punto di vista ambientale ed altri in cui l’insulto dell’inquinamento è stato più marginale. È chiaro quindi che i risultati di una mappatura delle piante, o delle acque, differiscano fortemente da una zona all’altra e restituiscano una fotografia veritiera solo per la porzione di territorio esaminata. È interessante sapere – prosegue – che uno studio condotto nella zona del Comune di Giugliano ha evidenziato un forte potere fitodepurativo nei pioppi: questi alberi sono stati piantati nella zona, inquinata da esacloro e metalli pesanti, e le analisi del terreno hanno riscontrato una situazione in netto miglioramento. Lo stesso potere fitodepurativo è presente nella canapa: investire nella coltivazione e nei processi di produzione di questa pianta, che si presta anche a molteplici altri utilizzi, sarebbe un modo per rilanciare da un lato l’economia del territorio e dall’altro bonificare queste zone in modo naturale».
«Il fatto che questo studio dimostri un abbassamento dei livelli di inquinamento è un’ottima notizia – afferma Tonino De Rosa, presidente dell’associazione Agropoli Onlus – a dimostrazione del fatto che le iniziative e i progetti messi in campo per salvare e bonificare la nostra area sono andati a buon fine e i risultati positivi continueranno ad arrivare. Credo che ora si tratti di continuare a rimboccarci le maniche per rilanciare ulteriormente il territorio, dal punto di vista sociale ed economico. Le eccellenze delle nostre terre, dal punto di vista agricolo e alimentare, hanno subìto una ovvia battuta d’arresto a causa di questo disastro. Stiamo risorgendo dalle macerie – conclude -. Studi come questo ci incoraggiano suggerendoci che la via imboccata è quella giusta. La Campania tornerà a essere felix».
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