Due nuovi studi pubblicati sul New England Journal of Medicine mettono in dubbio l’efficacia della quarta dose e degli anticorpi monoclonali contro le varianti del virus attualmente predominanti
Ci stiamo per avvicinare al terzo inverno di pandemia e nel nostro arsenale abbiamo accumulato molte più armi rispetto alle stagioni precedenti. Vaccini, antivirali e monoclonali, pur incidendo solo lievemente sulla diffusione del virus, hanno reso l’infezione Covid-19 sempre più curabile. Tuttavia, mentre aumentano i farmaci che abbiamo a disposizione, il virus continua ad evolversi e a mutare. Tanto che le armi messe in campo investendo enormi risorse intellettuali ed economiche stanno iniziando ad apparire «spuntate», cioè meno efficaci. Due studi, recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine, mostrano i primi segni di «cedimento» di vaccini, in particolare la quarta dose, e anticorpi monoclonali.
Il primo studio è stato condotto in Israele dallo Sheba Medical Center. Si è basato sui dati di 6mila operatori sanitari, ai quali è stata somministrata la quarta dose del vaccino anti-Covid della Pfizer. I risultati mostrano che la seconda dose di richiamo aumenta i livelli di anticorpi nei pazienti per circa 13 settimane, offrendo una maggiore protezione contro le infezioni che svanisce entro 15 settimane. Lo studio ha anche sottolineato che l’aumento degli anticorpi dopo la quarta dose è inferiore a quello registrato dopo la terza. Non è chiaro quali siano le conseguenze del calo dei livelli di anticorpi sul fronte della protezione da malattie gravi. È possibile che il vaccino offra una protezione contro le forme gravi della malattia per un periodo più lungo rispetto al calo dei livelli di anticorpi. Tuttavia, i risultati dello studio israeliano invitano a programmare più saggiamente le campagne di richiamo.
Secondo i ricercatori, i richiami dovrebbero essere somministrati quando si intravedono all’orizzonte forti ondate di contagio o quando pazienti specifici si trovano ad affrontare circostanze che aumentano il loro rischio. «Con la protezione chiaramente in calo dopo 4 mesi, le persone e i sistemi sanitari devono pianificare saggiamente i tempi per i richiami», spiega Gili Regev-Yochay, direttore delle malattie infettive presso Sheba Center e uno degli autori principali dello studio. «Dovrebbero essere presi in considerazione non solo i picchi di infezione, ma anche le condizioni mediche personali, gli eventi e i viaggi imminenti e le stagioni ad alto rischio», ha aggiunto. Secondo l’epidemiologo della Bar Ilan University, Michael Edelstein, che non è stato coinvolto nello studio, questo lavoro dimostra che i benefici della quarta dose sono «più transitori» rispetto a quelli delle dosi precedenti. Tuttavia, ha sottolineato che la quarta dose può «ancora essere fondamentale per proteggere i fragili nei momenti di alto rischio come l’aumento della circolazione del virus».
«Lo studio è stato condotto sulla quarta dose del vaccino originale, non quindi su quello aggiornato che si offre oggi, e conclude che la quarta dose offre una protezione di circa il 50% verso il contagio e che questa protezione declina nel giro di 3-4 mesi, tornando ai livelli paragonabili di chi ha fatto 3 dosi», spiega Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare Luigi Luca Cavalli-Sforza del Cnr di Pavia. «Ma non valuta la protezione da malattia grave», precisa. «Però dimezzare ulteriormente il rischio di contagio rispetto alle 3 dosi anche solo per 4 mesi consentirebbe ad esempio di passare un inverno tranquillo», aggiunge.
Nel secondo studio, condotto dall’Università di Tokyo, i ricercatori hanno valutato l’efficacia di diversi antivirali e anticorpi monoclonali che sono stati autorizzati per il trattamento dell’infezione Covid-19, sulla variante BA.4.6, attualmente dominante negli Stati Uniti. I risultati mostrano che tutti gli anticorpi monoclonali testati singolarmente (casirivimab, imdevimab, tixagevimab, cilgavimab, sotromivab) e in alcuni casi in combinazione hanno un’attività ridotta contro BA.4.6 rispetto al loro effetto sul ceppo originario del virus. L’effetto di bebtelovimab, invece, è risultato praticamente invariato rispetto a prima. Gli antivirali, come remdesivir, molnupiravir e nirmatrelvir, invece hanno mantenuto la loro efficacia contro BA.4.6. «I risultati ottenuti attraverso questa ricerca – commentano i ricercatori giapponesi – non solo aiuteranno nella selezione appropriata di farmaci terapeutici contro Covid-19 in campo medico, ma consentiranno anche di formulare piani per misure future contro Covid-19, come la valutazione del rischio di ciascun ceppo».
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