Dal test salivare per diagnosticare ed ottenere una previsione della progressione della Malattia di Parkinson, alle tecniche di stimolazione cognitiva associate a dieta bilanciata ipolipidica e costante esercizio fisico per ridurre lo sviluppo di demenza, fino alle nuove opportunità terapeutiche e i marker serici per riconoscere gli abusatori di farmaci antiemicranici. Le novità presentate al Congresso Nazionale SIN 2022
Vuoi sapere se soffri di Parkinson? La risposta è nella tua saliva. Grazie ad un semplice test salivare è possibile non solo ottenere una diagnosi precoce, ma anche un indice prognostico, ossia una previsione della progressione della patologia. Le ultime evidenze scientifiche offrono importanti novità anche nell’ambito delle demenze: grazie alla combinazione della stimolazione cognitiva con una dieta ipolipidica associata ed esercizio fisico è possibile rallentarne l’esordio.
Dal Congresso Nazionale 2022 della Società Italiana di Neurologia (SIN) arrivano buone notizie anche per chi soffre di emicrania: grazie a dei marker serici è possibile capire quali pazienti corrono il rischio di arrivare a una cronicizzazione del mal di testa a causa dell’abuso di farmaci e, di conseguenza, migliorare la loro prognosi.
A mettere a punto il test salivare in grado di offrire sia una diagnosi precoce, che una previsione della progressione della patologia, è stato il gruppo di ricerca de La Sapienza di Roma, guidato dal professor Alfredo Berardelli che, sin dal 2018, insegue la possibilità di individuare in maniera non invasiva un biomarcatore diagnostico precoce della malattia di Parkinson. «Tale diagnosi – spiega il Berardelli, presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) – avviene attraverso l’identificazione della proteina anomala alfa-sinucleina, proteina prima individuabile solo tramite biopsia gastroenterica o della ghiandola salivare, dove sembra si concentri prima di diffondersi al cervello. L’alfa-sinucleina oligomerica è il marker d’eccellenza che, con una sensibilità quasi del 100% e una specificità del 98,39%, può distinguere chi è in fase iniziale di malattia da chi non è affetto, con un’accuratezza diagnostica complessiva pari al 99%», aggiunge lo specialista.
Come per la malattia di Parkinson, anche per l’Alzheimer diagnosi precoce e prevenzione sono due elementi fondamentali per poter rallentare il decorso della patologia. Tra le ricerche scientifiche più promettenti spiccano quelle condotte in Finlandia: i risultati ottenuti dallo studio finlandese FINGER sulla prevenzione, pubblicati a più riprese su autorevoli riviste scientifiche, hanno chiaramente dimostrato che tecniche di stimolazione cognitiva e dieta bilanciata ipolipidica associate a un costante esercizio fisico sono in grado di ridurre sia lo sviluppo di demenza nei soggetti a rischio, sia di rallentare la progressione della demenza nel tempo.
«La diagnosi precoce – dice il professore Camillo Marra, presidente SINdem, l’Associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze – è la condizione necessaria per l’accesso alle nuove terapie contro l’Alzheimer e deve essere effettuata quando ancora non sono comparsi i sintomi tipici della malattia, nonché quando il disturbo non interferisce sulle capacità e sulla autonomia funzionale. In questa fase in cui il disturbo neuro-cognitivo è minimo (MCI l’acronimo inglese per identificarla), l’indagine diagnostica necessita di competenze specialistiche molteplici. Queste includono l’investigazione neuropsicologica, lo studio morfologico cerebrale attraverso la RMN cerebrale, lo studio della funzionalità sinaptica e metabolica cerebrale con la PET cerebrale e lo studio di biomarcatori, che sono in grado di identificare le proteine associate alla malattia di Alzheimer dall’analisi del liquor cefalorachidiano. Anche in assenza di terapie curative in grado di modificare l’avanzamento della malattia – aggiunge Marra -, la diagnosi precoce è necessaria per attuare, in maniera precoce, terapie preventive che rallentino la progressione della patologia».
Importanti novità ci sono anche per chi soffre di emicrania: grazie a dei marker serici è possibile capire quali pazienti corrono il rischio di arrivare ad una cronicizzazione del mal di testa a causa dell’abuso di farmaci e, di conseguenza, migliorare la loro prognosi. «Nel percorso di sostegno e presa in carico dei pazienti affetti da emicrania sono di fondamentale importanza i nuovi farmaci, che permettono di ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi – spiega il professore Antonio Russo, responsabile del Centro Cefalee della I Clinica Neurologica dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli -. Si va dalla tossina botulinica che, utilizzata con un protocollo specifico si è dimostrata efficace nella prevenzione dell’emicrania cronica, agli anticorpi monoclonali diretti contro il CGRP (peptide correlato al gene della calcitonina), attore protagonista del dolore emicranico. Il dato interessante è che tali trattamenti, oltre ad essere efficaci (tali da indurre una riduzione di almeno la metà del numero di giorni con emicrania al mese in circa il 70% dei pazienti), sono altamente tollerabili e sicuri».
È un recente studio del gruppo della professoressa Tassorelli dell’Istituto Mondino di Pavia ad aver segnato un importante punto di svolta in questo ambito. La ricerca ha fornito dati molto promettenti che permetteranno di identificare quei pazienti che rischiano un’emicrania cronica per uso eccessivo di farmaci sintomatici. «Andando a valutare i livelli plasmatici del CGRP e l’espressione di alcuni pattern genetici (cosiddetto micro-RNA) provenienti da cellule del sangue periferico di pazienti emicranici – aggiunge Russo – è emerso che i livelli di CGRP e l’espressione dei micro-RNA erano significativamente più alti nei soggetti con emicrania cronica con uso eccessivo di farmaci per l’attacco. Si è visto, inoltre, che la disassuefazione dai farmaci per l’attacco usati in maniera eccessiva ha comportato una riduzione significativa dei livelli di CGRP e l’espressione dei micro-RNA», conclude il responsabile del Centro Cefalee della I Clinica Neurologica dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli. Un risultato importante che, dunque, permetterà di identificare tutti quei pazienti in cui è necessario prestare una maggiore attenzione al decorso clinico dell’emicrania.
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