Il progetto mira a rafforzare le capacità tecniche e di innovazione nel settore sanitario in Ciad: sarà formato personale locale e vengono attivati servizi ospedalieri che non sono presenti, soprattutto nell’ambito della Chirurgia Generale, di Cardiologia e Gastroenterologia
«In Ciad la sanità pubblica non esiste, serve l’assicurazione. Se si deve fare un intervento bisogna portarsi i fili chirurgici per farsi ricucire». Vittorio Colizzi, professore di Immunologia e Patologia all’Università di Roma Tor Vergata, è il capo del “Progetto Sanità Italia-Ciad: Formazione e Innovazione Tecnologica AID 12582” che ha come obiettivo il potenziamento delle competenze e delle infrastrutture per migliorare i servizi ospedalieri. E a Sanità Informazione racconta del suo viaggio in Ciad, il primo di una serie, dove ha potuto constatare con mano la situazione di arretratezza di strutture e strumentazioni mediche che caratterizza la sanità del paese africano.
«Il problema più grande è che queste persone arrivano abbastanza tardi alla visita, prima cercano di risolvere i loro problemi di salute con i medici di strada e quando arrivano all’ospedale spesso è tardi. Non si possono permettere le cure e anche i medici richiedono solo le analisi principali, non possono fare grande diagnostica» spiega Colizzi che illustra anche le difficoltà dovute al poco personale a disposizione: su una popolazione di 17 milioni di persone si contano 5mila infermieri e solo 700 medici. «Specialmente in periferia gli infermieri fanno tutto, anche i semplici interventi di ernia, di isterectomia o un parto cesareo lo devono fare loro. Questo significa che non c’è personale specialistico».
Il progetto mira a rafforzare le capacità tecniche e di innovazione nel settore sanitario in Ciad. In parte vengono attivati servizi ospedalieri che non sono presenti, soprattutto nell’ambito della Chirurgia Generale, di Cardiologia e Gastroenterologia, un’altra parte viene fatta con formazione sul posto per trasferire le competenze per l’utilizzo degli strumenti e poi vengono messe a disposizione alcune borse di studio per due-tre specializzandi che verranno a formarsi a Tor Vergata.
Cooperano nel progetto la Fondazione Magis (Ong dei gesuiti con sede a Roma e presente in Ciad) e l’Istituto per i Sistemi Biologici (ISB) del Centro Nazionale Ricerche (CNR).
«In Ciad ci sono pochi medici e quei pochi che ha sono tutti generalisti – spiega Colizzi -. La chirurgia è poco utilizzata se non per gli interventi di base. Stiamo portando il sistema della laparoscopia per evitare interventi a cielo aperto che facilitano le infezioni e che richiedono più tempo di ricovero ospedaliero. Stiamo mettendo a punto attività di laboratorio più sofisticate, come la diagnostica molecolare. Una serie di attività che puntano a rendere il Servizio Sanitario Nazionale del Ciad più efficiente, moderno e attento alle fasce deboli della popolazione».
Due gli ospedali del Ciad coinvolti: l’Ospedale Universitario di Riferimento Nazionale e l’Ospedale Universitario Le Bon Samaritain, entrambi collocati nella capitale N’Djamena. Verranno acquistati degli strumenti come le colonne laparoscopiche e il fibroscan per valutare lo stato di salute del fegato, data la grande diffusione dell’epatite virale nella popolazione.
A sorpresa, però, il Covid non è stato uno dei principali problemi del Ciad e di gran parte dei paesi africani. E ciò è dovuto a vari fattori, a partire dal fatto che l’80% della popolazione si cura con le piante, mentre solo il restante 20% si avvicina alle medicine occidentali. «In Italia per bloccare la morbilità da Covid abbiamo utilizzato i corticosteroidi che sono dei potenti antinfiammatori – spiega il professore di Tor Vergata -. In Ciad non hanno utilizzato i corticosteroidi perché non li hanno, ma decotti di piante che contengono polifenoli che hanno una fortissima attività antinfiammatoria. Così, circa l’80-90% della popolazione ha incontrato il virus ma non c’è stato il disastro che abbiamo avuto noi. C’è poi il discorso dovuto alla risposta infiammatoria già alta che ha gran parte della popolazione africana a causa di altre infezioni».
Ma non è l’unica spiegazione scientifica alla scarsa suscettibilità degli africani al Covid. «C’è poi la componente genetica – aggiunge Colizzi -. Il genoma degli africani è al 100% un genoma di homo sapiens. Noi, i cinesi, gli indiani abbiamo un genoma che ha il 3-4% di altri ominidi, come il Neanderthal nell’Europa occidentale e questo 2-3% ci ha reso più suscettibile. Questo genoma misto è dovuto alla migrazione di homo sapiens. L’elemento genetico ha reso gli africani di essere più resistenti alla malattia, ma non all’infezione».