La trombocitopenia immune primaria (ITP) è una rara forma di malattia autoimmune della coagulazione del sangue caratterizzata da una carenza o un calo del livello delle piastrine che può accompagnarsi a manifestazioni emorragiche. Da uno studio di Real World Evidence realizzato da Clicon emerge che la durata media della terapia con corticosteroide è pari a 6,8 mesi, più del doppio rispetto a quanto indicato dalle linee guida
La trombocitopenia immune primaria (ITP) è una rara forma di malattia autoimmune della coagulazione del sangue, caratterizzata da carenza di piastrine. Una patologia poco conosciuta, ma con effetti negativi sulla qualità della vita delle persone che ne soffrono e che necessita di un’ottimizzazione della gestione terapeutica, attualmente caratterizzata dal protrarsi della terapia con corticosteroidi oltre i 3 mesi previsti dalle linee guida. Linee guida che stabiliscono un preciso percorso terapeutico in grado di favorire un miglioramento nella qualità di vita dei pazienti e, allo stesso tempo, contribuire a efficientare le risorse sanitarie.
«Sulla base dell’analisi condotta nel contesto italiano, – spiega Luca Degli Esposti, presidente CliCon Health, Economics and Outcomes Research – la prevalenza della trombocitopenia immune primaria è risultata pari a 262 casi/milione di assistibili. Circa i due terzi dei pazienti sono risultati in trattamento con farmaci corticosteroidi e, tra questi, la maggior parte presentava un’esposizione superiore ai tre mesi di terapia. Tale esperienza ha confermato la possibilità di affinare le stime su epidemiologia e modalità del trattamento dei pazienti affetti da malattie rare mediante i dati sanitari disponibili e, conseguentemente, di poter disporre di un ulteriore elemento conoscitivo per la gestione della patologia e la valutazione delle terapie farmacologiche».
L’analisi osservazionale si basa su un campione nazionale di circa 9 milioni di pazienti, di cui 2.869 affetti da ITP. Di questi ultimi, il 65,6% – in trattamento con corticosteroidi – ha un’età media pari a 49,9 anni. I pazienti trattati con corticosteroidi con durata di almeno un ciclo superiore a 3 mesi sono il 46,1%, mentre circa il 67,7% dei cicli osservati ha mostrato un’esposizione molto superiore a questa soglia. Come evidenziato dallo studio, infatti, la durata media dei cicli di terapia con corticosteroide è pari a 6,8 mesi nei pazienti trattati. La quota di cicli di trattamento con corticosteroidi oltre l’anno, infine, raggiunge il 25,5%.
Come evidenzia Valerio de Stefano, direttore UOC, Servizio e Day Hospital Ematologia, Dipartimento per immagini radioterapia oncologica ed ematologica Policlinico Gemelli: «C’è un consenso generale a limitare l’impiego degli steroidi in prima linea a un periodo non superiore a 2-6 settimane, considerando altre linee di terapia in caso di mancata risposta o in caso di persistenza di piastrinopenia dopo sospensione del cortisone. Proseguire il trattamento cortisonico a lungo termine comporta un rischio sensibile di ipertensione, diabete, iperlipidemia, gastropatia, osteoporosi, cataratta, e maggiore facilità ad infezioni. Esistono poi anche altri effetti di notevole impatto sulla qualità di vita: alterazioni del tono dell’umore, nervosismo, insonnia, incremento ponderale con caratteristiche tipiche quali la faccia “a luna piena”, acne, cefalea, sudorazione aumentata. L’uso degli steroidi a breve termine non va comunque demonizzato, in quanto fondamentale nel primo approccio alla ITP, ma queste considerazioni vanno tenute molto ben presenti nella pratica clinica».
Intervenire sul percorso terapeutico inciderebbe positivamente anche sulla qualità di vita dei pazienti affetti da ITP. Infatti, come dichiarato dal 90% dei 1.507 pazienti intervistati nell’ambito dell’indagine “iWISh”, la possibilità di avvalersi di trattamenti alternativi, basati ad esempio sull’assunzione di farmaci per via orale, inciderebbe positivamente anche sulla qualità di vita delle persone affette da ITP. Un aspetto questo molto importante ma purtroppo non abbastanza tenuto in considerazione.
La ricerca, infatti, ha evidenziato un disallineamento tra il percepito dei pazienti e quello dei medici, soprattutto in merito a uno degli effetti più evidenti e pesanti della patologia: la “fatigue”. Il 50% dei pazienti la considera uno degli elementi più gravosi della patologia, mentre il 73% ha riferito difficoltà di concentrazione a causa di questo sintomo. Dal punto di vista dei clinici, al contrario, solo il 38% dei loro pazienti si sentiva affaticato e, di questi, hanno ritenuto che il 46% sperimentasse un alto livello di fatica.
“Nell’ITP cronica – commenta Barbara Lovrencic, presidente AIPIT (Associazione Italiana Porpora Immune Trombocitopenica) – quello che maggiormente impatta la qualità di vita è l’instabilità del livello delle piastrine perché comporta la costante ansia di sé e quando il livello di piastrine scenderà tanto da causare emorragie, la possibilità di dover ricorrere a ulteriori trattamenti o l’ospedalizzazione. Per via della sua imprevedibilità e della stanchezza cronica, un sintomo fortemente impattante così come risulta anche dallo studio iWISh, l’ITP comporta molte limitazioni come ad esempio nell’attività sportiva e nella possibilità di viaggiare (sia per turismo che per lavoro) ma anche nell’attività lavorativa e di studio. Con il Covid-19 tutti abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significhi vivere con la costante paura per la propria salute e quanto sia frustrante non potersi organizzare e vivere liberamente a causa di qualcosa che è fuori dal nostro controllo». Un nuovo approccio terapeutico quindi è possibile, anzi auspicabile per migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti da questa rara patologia del sangue.
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