«Il risultato è il continuo attivarsi di uno stato di vigilanza e di una serie di strategie di evitamento al pericolo, tra cui il diniego e la depersonalizzazione. La psicologia dell’emergenza non è qui funzionale, bisogna agire in maniera profonda sul trauma». Così la psicologa Cristina Brasi, criminologa ed analista Comportamentale
Lo scorso 8 marzo per le donne ucraine passerà alla storia come una data che non potranno mai dimenticare. Invece di ricevere delle mimose in un giorno di festa hanno trascorso la loro giornata in fuga dalle bombe e dagli orrori della guerra. Oppure nascoste nei rifugi delle città che sono sempre più stremate da un conflitto dove i civili stanno pagando un prezzo altissimo nonostante i corridoi umanitari.
La guerra continua e dai tavoli negoziali arrivano notizie sempre più contradditorie. A proposito di questo non si può non osservare come sarebbe auspicabile che alle trattative prendessero posto figure di primo livello sia russe che ucraine. Certezze quindi non ne abbiamo se non che la popolazione ucraina è allo stremo. Nelle città cinte d’assedio si vive al freddo, senza l’acqua corrente, senza luce, senza medicine e le persone non possono comunicare con nessuno visto che negli ultimi giorni l’aviazione russa ha bombardato i ripetitori della telefonia mobile.
Drammatica la situazione nella regione di Kiev, a Kharkiv, Chernihiv e Sumy ma la situazione più drammatica la vivono gli abitanti della città portuale di Mariupol (sud dell’Ucraina). Laurent Ligozat, coordinatore delle emergenze di Medici senza Frontiere intervistato dall’agenzia stampa AGI ha definito «la situazione umanitaria catastrofica, è fondamentale che i civili vengano evacuati subito».
Il timore ora è che l’esercito russo possa utilizzare le armi chimiche per dare la spallata finale dopo che anche le strutture sanitarie vengono di continuo bombardate con strage di civili, tra i quali donne, bambini e invalidi. Ma il giorno che le bombe si fermeranno cosa ne sarà della popolazione ucraina che ha visto morire amici e parenti nei bombardamenti dell’artiglieria pesante, negli attacchi con sistemi missilistici a lancio multiplo e negli attacchi aerei? Come cresceranno i bambini che hanno vissuto questo orrore? Ne parliamo con la dott.ssa Cristina Brasi Psicologa, Criminologa ed Analista Comportamentale.
«Per comprendere cosa accade è utile identificare lo scenario che, in questo caso, è molto particolare. Abbiamo da un lato una guerra contemporanea, dove la propaganda viene fatta attraverso i media e i social media, ma dove la guerra procede come nel ‘900, con grandi eserciti, invasioni di massa, spostamenti di grandi schiere di soldati verso il fronte, esattamente come accadeva nella Prima Guerra Mondiale. Una volta passato il fronte, i reparti devono però cavarsela da soli, c’è solo una direttrice d’attacco e lì finisce la pianificazione. Il contesto appare quindi surreale ed estremamente contradditorio per chi lo vive in prima persona. Il secondo elemento concerne invece il fatto che, tutto ciò, sta accadendo a ridosso di una pandemia, comportando quelle che viene definita come ritraumatizzazione».
«Noi ci troviamo di fronte a un trauma qualificato come di tipo II, ovvero causato da esposizioni prolungate e ripetute a circostanze esterne estreme. Come indicato in precedenza vi è una sovrapposizione di due traumi, quello pandemico e quello da guerra. Il risultato è il continuo attivarsi di uno stato di vigilanza, oltre che di un senso di anticipazione che portano a far si che si attivino una serie di strategie di evitamento al pericolo, di cui, le più comuni, sono il diniego e la depersonalizzazione. Si rilevano quindi alterazioni della coscienza e sintomi dissociativi che disorganizzano il funzionamento dell’individuo a livello biologico, fisiologico, relazione, comportamentale e identitario. La psicologia dell’emergenza non è qui funzionale, bisogna agire in maniera profonda sul trauma».
«Anche i bambini sono sottoposti a questo trauma complesso che, come risposta, tendenzialmente si manifesta con ottundimento affettivo, rabbia e intorpidimento, portando spesso ad esiti dissociativi. È quindi necessario aiutarli integrando nuovamente i sistemi di azione coinvolti nella gestione della quotidianità con quelli volti alla regolazione delle difese. Il lavoro deve essere sostenuto su due fronti, da una parte agendo sui meccanismi di evitamento fobico e, dall’altro, sulle memorie, quindi con una rielaborazione dei vissuti e delle emozioni relative alla guerra».
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