Domenica Taruscio, direttore del Centro Nazionale Malattie Rare dell’Iss: «I pazienti senza diagnosi oscillano fra il 25 e il 40% e talora oltre nei vari Paesi. In Italia studiati 71 pazienti dal Network coordinato dall’Iss per lo più colpiti da sindromi con disabilità intellettuali o da anomalie congenite multiple»
Sono malattie più uniche che rare e in un caso su tre restano senza nome: chi ne è affetto può trascorrere anche tutta la vita senza mai ricevere una diagnosi. Ed è per scoprire se da qualche parte nel mondo esiste un secondo paziente, un caso simile o uguale che, dal 2014, l’Istituto Superiore di Sanità, unitamente al National Institute of Health (NIH) americano, ha messo in piedi l’Undiagnosed Diseases Network International” (UDNI), una rete internazionale coadiuvata da una banca dati, in cui medici e ricercatori possono condividere i casi clinici.
«Confrontare due pazienti affetti dalla stessa patologia – spiega Domenica Taruscio, direttore del Centro Nazionale Malattie Rare dell’Iss e cofondatore dell’UDNI – può aumentare le speranze di arrivare ad una diagnosi e, di conseguenza, offrire cure più adeguate. Questa rete è stata co-fondata con la collaborazione della Wilhelm Foundation, un’associazione di pazienti svedese voluta dai genitori di tre bambini deceduti proprio a causa di una malattia rara senza diagnosi». Da oggi, grazie ad un restyling del sito web, è stata dedicata un’intera sezione ai pazienti, dove è possibile caricare le loro fotografie, corredate da una breve descrizione fenotipica, ovvero le peculiarità fisiche causate dalla malattia.
In Italia, i pazienti con malattia rara senza diagnosi tendono a spostarsi tra i diversi Centri di Riferimento che compongono la Rete Nazionale Malattie Rare, alla ricerca di risposte definitive. «Tuttavia – racconta il direttore del Centro Nazionale Malattie Rare dell’ISS – nella maggior parte dei casi, anche a fronte di numerosi viaggi in varie strutture ospedaliere, visite mediche specialistiche, analisi, esami diagnostici, non si arriva ad una diagnosi definitiva».
Questi pazienti sono, ovviamente, presi in carico dal Sistema sanitario nazionale, ma assisterli è tutt’altro che semplice: «Non avendo una “etichetta” precisa, una diagnosi appunto – spiega Taruscio – non è possibile intraprendere percorsi di cura mirati. Ne consegue che la presa in carico “appropriata” di questi pazienti è fortemente ritardata, spesso con aggravamento dei sintomi e del senso di smarrimento e di frustrazione degli ammalati e delle loro famiglie. Inoltre, molti pazienti iniziano a cercare informazioni su internet e, in vari casi, vanno all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, con la speranza di migliorare la loro definizione clinica».
L’antesignano dell’UDNI è stato fondato proprio in America: il National Institute of Health (NIH), nel 2008, ha inaugurato “The Undiagnosed Diseases Program”, che ha offerto la possibilità di ospitare i pazienti presso le strutture cliniche di Bethesda (Maryland). Grazie a questo programma circa il 25-50% dei pazienti ha ricevuto una diagnosi definitiva, contro il 25% dei casi archiviati come “unsolved”, non risolti.
A livello europeo, uno studio condotto su alcune patologie rare da Eurordis in otto Paesi ha fotografato la seguente situazione: «Il 25% dei pazienti attende fra i 5 e 30 anni per raggiunge la diagnosi dopo la comparsa dei primi sintomi e il 40% del totale non darà mai un nome alla propria patologia». «Il Network nazionale dell’Iss (come tutti i Network ad oggi esistenti) – commenta Taruscio – ha certamente facilitato e incoraggiato il confronto scientifico fra i gruppi di ricercatori e clinici che operano in questo settore. Gran parte delle informazioni sin qui collezionate, all’interno di uno specifico data base dell’ISS, sono state infatti condivise con tutti i Paesi del mondo partecipanti al più ampio Network UDNI».
I principali successi italiani sono stati raccolti in un recente studio pubblicato sulla rivista Italian Journal Pediatrics: i dati (riferiti al periodo 2016-19) descrivono un totale di 110 pazienti affetti da una malattia rara senza diagnosi. «Di questi 110 casi, 39 (35,4%) sono stati esclusi dalle analisi in quanto non rispondenti a degli specifici criteri di inclusione definiti dal comitato scientifico designato all’interno del Network – spiega Taruscio -. Settantuno casi clinici, invece, sono stati ben caratterizzati nel database creato ad hoc all’Istituto Superiore di Sanità.
Le analisi genomiche (Whole ExomeSequencing = WES), sono state effettuate su 13 casi (18,3%) portando in 2 casi alla identificazione di varianti causative di patologia, in 5 casi alla identificazione di nuovi geni/patologia (per i quali si stanno effettuando studi funzionali ad hoc). In 3 casi le analisi non si sono concluse a causa della paucità del materiale biologico da impiegare. Altri 3 sono ad oggi ancora irrisolti. La maggior parte dei 71 pazienti studiati sono affetti da sindromi con disabilità intellettuali (34/71) e con anomalie congenite multiple (19/71)».
Il lavoro realizzato finora è notevole: è stata standardizzata la nomenclatura per descrivere specifiche malattie, sono stati condivisi i protocolli di ricerca, realizzati numerosi incontri scientifici (8 Conferenze internazionali dal 2014: Roma, Budapest, Vienna, Tokyo, Stoccolma, Napoli, Nuova Dheli, Nijmegen-Olanda e nel 2021 Rochester-USA fra numerosi gruppi di ricerca operanti in tutto il mondo).
«Il nostro obiettivo è coinvolgere attivamente un numero sempre maggiore di ricercatori e clinici per aumentare competenze e condivisioni di conoscenze scientifiche e dati ad oggi disponibili. Il tutto – conclude il cofondatore dell’UDNI – è finalizzato a formulare la diagnosi a pazienti che ne sono privi da anni, e quindi a dare un nome alla loro malattia e a contribuire ad aumentare le conoscenze biologiche delle patologie».
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