Il professor Parati (Istituto Auxologico): «Attenzione all’altitudine. Per chi ha avuto polmoniti o gravi problemi cardiaci meglio evitare le alte quote se non si è certi di non avere conseguenze residue»
Un italiano su quattro nell’estate del Covid ha scelto la montagna. Circa il 23% in più rispetto allo scorso anno. A confermarlo i dati di Confturismo-Confcommercio, che hanno rivelato anche le motivazioni di questa scelta: spazi aperti, natura, sport e distanziamento sociale. Un mix di salute che ai più è sembrato la soluzione migliore nell’era Covid. Ma come la mettiamo con l’altitudine? Non tutti sanno infatti che salendo ad alte quote è necessaria molta prudenza, in particolare per chi ha avuto problemi respiratori o cardiopatie.
I rischi possono essere tanti e dunque occorrono prudenza, preparazione e un’indagine accurata prima della partenza. A sottolinearlo è il professor Gianfranco Parati, direttore di Cardiologia dell’Istituto Auxologico Italiano, professore di Medicina Cardiovascolare all’Università di Milano Bicocca ed esperto di alta quota.
«Negli ultimi 16 anni abbiamo fatto una serie di studi sul campo – spiega – con diverse spedizioni per capire come funziona l’organismo ed in particolare l’apparato cardiorespiratorio in altitudine, iniziando con la Capanna Margherita sul monte Rosa a 4500 m fino all’Everest e alle Ande, passando dai 3000 ai 5400 metri. A quelle altezze la mancata riduzione della pressione barometrica».
«Questa riduzione – continua – agisce su recettori sensibili alla concentrazione di ossigeno nel sangue, che rispondono stimolando una iperventilazione: nel tentativo di compensare entra più ossigeno nei polmoni, ma allo stesso tempo si produce una eccessiva eliminazione di anidrite carbonica. Se questo dura per un certo numero di ore, si determina un calo di anidrite carbonica e si arriva ad avere sangue meno acido, l’alcalosi respiratoria. Sostanzialmente il cosiddetto mal di montagna, che si manifesta con mal di testa, nausea, incertezza nel cammino».
«Questo può anche dare, nei casi più gravi, salendo oltre i 3500 metri, edema polmonare o edema cerebrale da alta quota – prosegue il Professor Parati -. In quest’ultimo caso si inizia con incertezza nel cammino, confusione e, se non si interviene tempestivamente, si può arrivare al coma con rischio per la vita».
«L’edema polmonare ad alta quota dipende da meccanismi complessi che includono un aumento della pressione arteriosa polmonare ed un aumento della permeabilità dei capillari polmonari, legato al danno che la mancanza di ossigeno determina sull’endotelio, ovvero sulla parete che ricopre l’interno dei vasi polmonari, causando la fuoriuscita di liquido nell’interstizio e, successivamente, anche negli alveoli polmonari. Se non si interviene subito si può anche perdere la vita. Queste due gravi situazioni sono rare, per fortuna, e solo a quote molto elevate».
«Più spesso invece si verifica un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. È fondamentale perciò andare in montagna sempre preparati, tanto più se si è portatori di malattie cardiorespiratorie e, ancor più, se si è reduci dal coronavirus».
Salire ad alta quota dunque non è controindicato in assoluto, ma è necessario che l’individuo faccia un controllo preventivo, tiene a ribadire a più riprese il professor Parati. «La fase di preparazione è fondamentale per tutti, non solo per i reduci dal Covid – sottolinea –. Occorre un po’ di preparazione fisica e, ad una certa età, in caso di quote significative (sopra i 2000-2500 metri) meglio salire per gradi».
«Senza preparazione, un programma di viaggio che prevede alte quote come ad esempio fare visita al sito archeologico del Machu Picchu in Perù o andare in Nepal, dove si arriva in aereo e ci si trova spesso catapultati improvvisamente in quota, può essere pericoloso se ci sono problemi di salute pregressi. Dopo le prime cinque o sei ore in quota, in cui non accade nulla, si avvia un meccanismo di adattamento che aumenta non solo la ventilazione per aumentare l’ossigeno, ma anche l’attività del sistema nervoso simpatico che stimola il cuore e genera una tachicardia. Si verifica una vasocostrizione delle arteriole periferiche, che prevale sulla vasodilatazione delle prime ore e questo fa salire la pressione arteriosa».
«In soggetti giovani e sani – spiega il medico -, tutto ciò non rappresenta un problema, e dopo qualche giorno tutto si risolve. Nel caso invece di soggetti ad elevato rischio cardiovascolare, o già sofferenti di ipertensione, può essere necessario un aggiustamento della terapia in corso da parte del medico. Ecco dunque che andare in montagna non è di per sé controindicato, ma richiede preparazione fisica e adeguata verifica della stabilità delle condizioni cliniche individuali».
La preparazione si fa ancora più dettagliata e specifica per coloro che hanno avuto il Covid. «Occorre fare una premessa in questo caso – prosegue il professor Parati – e distinguere chi ha contratto l’infezione virale senza manifestare una malattia evidente, i cosiddetti asintomatici e paucisintomatici, per i quali non ci dovrebbero essere controindicazioni per la montagna anche se è sempre necessario un controllo per ottenere il via libera del proprio medico), da coloro che invece hanno avuto polmoniti, problemi cardiaci o neurologici da Covid-19. In questi casi è bene non trascurare nulla e sottoporsi a controlli più approfonditi prima di fare escursioni in montagna a quote significative».
Chi ha avuto la polmonite interstiziale bilaterale ha affrontato un’aggressione infiammatoria che può aver lasciato segni profondi, come una fibrosi del polmone. In tal caso aumentano le difficoltà degli scambi di ossigeno e anidride carbonica tra aria e sangue, ed è chiaro che risulta più difficoltoso per l’individuo respirare in alta quota. Per questi pazienti il professor Parati suggerisce un check-up specifico.
«All’Istituto Auxologico stiamo richiamando tutti i pazienti ricoverati nel nostro ospedale San Luca per Covid che hanno superato la malattia per verificare l’eventuale persistenza di danni successivi all’infezione virale. In tal caso, oltre ad una visita accurata con ECG, spirometria e una batteria di esami del sangue, facciamo una tac ai polmoni, una ecografia polmonare, un ecocardiogramma, una prova sotto sforzo ed una indagine dei livelli di ossigeno nel sangue. Alla luce dei risultati valutiamo ciò che è rimasto della malattia e se è opportuna o meno un’esperienza ad alta quota».
«Chi ha avuto problemi all’apparato cardiovascolare sarà sottoposto ad una serie ulteriore di esami per vedere se c’è stato un interessamento del cuore e della circolazione, sia sistemica che polmonare, utilizzando anche sofisticate valutazioni mediante risonanza magnetica cardiaca. Pertanto, se un soggetto che ha superato la fase acuta di danni cardiaci da Covid-19 desidera recarsi in quota deve sottoporsi ad una valutazione attenta del cardiologo per calibrare la salita, per definire che tipo di esercizi fare o come prepararsi per evitare spiacevoli conseguenze».
«Infine, c’è chi ha avuto problematiche al sistema nervoso che devono essere valutate attentamente, perché una ridotta disponibilità di ossigeno una volta esposti alla quota può rendere anche il sistema nervoso, se già interessato dalla malattia, più fragile».
«Quindi – conclude il professore – la montagna è possibile se si conoscono bene le proprie condizioni di salute, se si è preparati a modulare eventuali terapie in corso e se si organizza l’ascensione calibrando le salite per non avere sorprese. Chi ha avuto polmoniti, danni cardiaci o nervosi e stati infiammatori importanti deve verificare bene le sue condizioni di salute e definire con il medico non solo eventuali aggiustamenti terapeutici, ma anche fino a dove può andare in sicurezza. Questi semplici accorgimenti possono garantire una vacanza serena anche in montagna, limitando il rischio di doversi rivolgere in emergenza ad un servizio medico».