Il numero di decessi da coronavirus è arrivato a un milione. L’Oms avverte del pericolo di raddoppiare la cifra. Qui cinque storie simboliche delle persone che abbiamo perso nella lotta contro il virus
Sono 1 milione i morti di Covid-19 al mondo. A un anno dal periodo che gli esperti hanno identificato come quello di prima manifestazione del nuovo coronavirus, e con velocità diverse, gli indici segnano questi numeri. Conteggiando solo i morti accertati e “riconosciuti” come contagiati dalla malattia, mentre probabilmente le cifre reali racconterebbero una storia diversa. Tra questi morti ci sono dottori, che l’hanno affrontato a mani nude, persone contagiate sul lavoro, degenti in Rsa, soggetti fragili che non sono riusciti a proteggersi in famiglia e tanti pazienti a cui la malattia ha portato via tutto.
Molto è stato scritto sulle cause dell’aggravarsi della malattia da coronavirus. Gli anziani e i soggetti affetti da comorbilità sono i più a rischio di complicazioni, ma ciò non ha impedito a Covid-19 di uccidere persone perfettamente sane. Si è pensato anche a una questione genetica, in quanto più uomini che donne finiscono in terapia intensiva. Ma non sembra esserci una sola spiegazione ai risvolti della malattia.
In forma grave il virus non colpisce solamente i polmoni causando polmonite interstiziale. Ha effetti sulla pelle, specie nei bambini. Li ha sul cervello e sul cuore. Ha la potenzialità di arrestare un corpo umano e lo dimostrano le tante storie diverse, ora un milione, di vite interrotte da Covid-19.
Impossibile dimenticare quella di Li Wenliang, l’oculista che per primo ha dato l’allarme in Cina. Aveva 34 anni e su una chat di lavoro aveva avvertito i colleghi il 30 dicembre scorso. C’erano otto casi ricoverati con una malattia che somigliava pericolosamente alla Sars nel suo ospedale di Pechino. Convocato dai responsabili dell’ufficio pubblico per la sicurezza, era stato poi iscritto nel registro degli indagati e pubblicamente screditato come fonte di fake news.
Un mese dopo un suo selfie dal letto di ospedale torna virale. Wenliang è stato contagiato e ora indossa una maschera per l’ossigeno e non dimentica di ricordare cosa si rischia con questo nuovo virus. Il giovane oculista muore il 6 febbraio in ospedale. Ormai simbolo immortale della pandemia, anche l’Organizzazione mondiale della Sanità lo ricorda: «Nessuno dimenticherà il tuo lavoro, dottore».
Il sacrificio dei 178 medici italiani caduti per Covid-19 risuona nel nome del dottor Roberto Stella, medico di medicina generale e presidente dell’Ordine dei Medici di Varese. Aveva 67 anni e lavorava in un poliambulatorio di Busto Arsizio. Contagiato insieme a un collega, la malattia si è aggravata fino a portarlo alla morte l’11 marzo. È stata la prima vittima tra i camici bianchi, quando in Italia incominciava il picco della pandemia.
«Una guida attenta, un amico sicuro, un lavoratore appassionato, acuto, instancabile; i suoi pazienti hanno perso un amico ed un uomo capace di curare e prendersi cura senza limiti», lo ha ricordato così l’Omceo Varese. Proprio quell’amore per la professione, che Stella considerava una missione prima di tutto, lo ha portato al sacrificio estremo. Una storia, la sua, come quella di tanti altri professionisti che di fronte all’assenza di dispositivi di protezione e alle domande senza risposta dei pazienti, hanno scelto l’aiuto a discapito della propria sicurezza.
Tutto il mondo ha trattenuto il respiro quando è venuto a mancare Luis Sepùlveda, l’ultimo grande scrittore combattente. Si è spento a Oviedo, a 70 anni, il 16 aprile 2020 dopo che la malattia l’aveva preso durante un festival letterario in Portogallo a fine febbraio. Sepulveda è stato il primo volto conosciuto a perdere la vita per il virus. Una ferita ancora più profonda perché inferta in un momento in cui quasi il mondo intero si trovava in lockdown, con ospedali pieni e molta paura.
Lo scrittore cileno, autore de “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” e tanti altri titoli, era un pezzo di storia dell’America Latina. Protagonista di quegli anni Sessanta turbolenti e instabili, con la sua penna aveva lottato per libertà dei popoli dall’oppressione del regime. Quando il virus lo ha colpito era già fragile, faceva i conti con una malattia che da qualche anno lo aveva indebolito e lo faceva viaggiare molto meno. Il suo grido di liberazione ora risuona più forte.
Quella di M. (nome di fantasia) è la più dolorosa delle vicende citate. Semplicemente perché coinvolge un individuo che non ha avuto modo di assaporare la vita, come consolazione che forse le altre vittime qui citate hanno potuto avere. Il suo è stato il caso di vittima più giovane di Covid-19 in Europa a inizio epidemia. M. aveva cinque anni ed è morto lo scorso 4 aprile per complicazioni azionate dal virus in Gran Bretagna.
Nella sua storia sono raccolti tutti i nomi e i volti di bambini e ragazzi portati via dalla malattia. Un numero ridotto, fortunatamente, ma non per questo meno doloroso (0,06% in Italia). M. figurava tra i primi casi di quella sindrome infiammatoria multisistemica simile alla malattia di Kawasaki che lo scorso aprile aveva messo in allarme i medici della Gran Bretagna e di Bergamo, per la comparsa di piccoli focolai. Causata da Covid, si è poi scoperto essere letale in alcuni casi. La sua storia ricorda l’importanza della protezione dei più piccoli, perché nessuno è immune.
Una tragedia ingiusta, così l’hanno titolata i giornali americani. La morte per coronavirus di un ragazzo di 17 anni negli Usa, in California, rifiutato in gravi condizioni dall’ospedale perché privo di assicurazione sanitaria. Contro un virus nuovo e i letti pieni, il sistema sanitario statunitense ha mostrato le sue debolezze. Non è chiaro se questa morte si potesse evitare, ma il giovane è stato sicuramente privato di cure essenziali.
«Il venerdì prima di morire era in salute e il mercoledì successivo è morto» raccontava sconvolto il sindaco di Lancaster Rex Parris, città natale del ragazzo. Dal pronto soccorso, nonostante le evidenti difficoltà respiratorie lo avevano invitato a recarsi in un ospedale pubblico, in quanto privo di assicurazione. Struttura in cui il giovane non è mai arrivato, stroncato da un infarto nel tragitto. «In quelle condizioni si cura e basta», il commento ancora incredulo del primo cittadino.
«Abbiamo perso un milione di persone in nove mesi e potrebbero volerci altri nove mesi prima di avere il vaccino», ha detto il direttore per le emergenze Michael Ryan, commentato i numeri di oggi. «Siamo pronti a fare ciò che è necessario per evitare quella cifra? Il momento di agire è adesso. Altrimenti guarderemo a quel numero, e purtroppo ad uno molto più alto».
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