Con il Dl Rilancio si prevede una nuova specializzazione per i medici di domani dopo le difficoltà di Covid-19. Ne parliamo con Italo Penco (Sicp): «Se le cure palliative fossero applicate nella maniera giusta si diminuirebbe la mortalità ospedaliera e quindi anche il numero delle giornate in ospedale sarebbe inferiore»
Un gesto di civiltà che riceve un ennesimo riconoscimento per il proprio valore. Le cure palliative, che la legge 38 descrive come quell’insieme di interventi rivolti a una persona la cui malattia riveli una prognosi infausta e non risponda più a trattamenti specifici, diventano una scuola di specializzazione per i medici di domani. Lo ha stabilito il Decreto Rilancio, ora diventato legge. Sanità Informazione ne ha parlato con Italo Penco, presidente della Sicp (Società italiana cure palliative) e direttore della Fondazione “Sanità e Ricerca” di Roma.
Con la legge 38 del 2010 si decise di strutturare una rete di cure palliative che percorresse il sistema sanitario nella sua interezza. Dotate di un coordinamento regionale, dovrebbero distribuire i malati attraverso i vari setting in cui essi possano trovare una continuità di cura. «Dovrebbero essere erogate all’interno di ospedali, hospice, al domicilio e in ambulatorio – ha spiegato Penco –. Evidentemente però questa non è la realtà in tutte le regioni, perché ce ne sono molte che sono riuscite a implementare in maniera importante questo modello e altre invece che stentano».
La ragione sarebbe da ritrovarsi, secondo il presidente Sicp, nel nodo ospedaliero, che risulta essere il meno sviluppato. Da lì i malati dovrebbero essere intercettati e poi spostati alle cure palliative sul territorio. «Purtroppo in ospedale – ha chiarito il presidente Sicp – la mortalità di pazienti affetti da una malattia inguaribile è ancora molto elevata e questo forse è dato proprio dalla carenza della rete, che non ha le persone e le risorse specializzate per fare questo lavoro di transizione e integrazione con il territorio».
La segnalazione e l’indirizzamento del paziente a cui viene diagnosticata l’inguaribilità devono venire da entrambe le parti. Dall’ospedale, che verificando il mancato effetto delle cure tradizionali sposta il paziente su quelle palliative. Ma anche dal medico di medicina generale, che accorgendosi di non riuscire più a gestire il malato in maniera adeguata possa fargli conoscere la rete in maniera precoce.
Negli ultimi anni, poi, le richieste verso cure palliative e terapia del dolore sono aumentate. «Prima si pensava alle cure palliative come cure di fine vita, destinate sopratutto ai malati oncologici – ha raccontato Penco – oggi si è visto che chi ne necessita sono specie i pazienti non-oncologici, che rappresentano il 60% di chi le richiede».
Tra i fattori il significativo miglioramento dell’aspettativa di vita: in Italia si vive di più. Ma, aggiunge l’esperto: «Vivere di più significa anche essere più fragili, ed essere quindi affetti da numerose patologie e comorbilità che mettono le persone in condizione di poter andare avanti solo se vengono attivate delle cure».
«Ormai l’1,5% della popolazione ne ha bisogno – ha fatto presente Penco –. Significa un numero importante di persone in condizione di fragilità, che oltre ai bisogni clinici aggiungono necessità sociali e psicologiche». Per farlo la sensibilizzazione, prima che dal paziente, deve partire dagli operatori sanitari. Ai quali si deve una preparazione specifica in questi campi e una formazione all’altezza dei tempi che verranno.
«Covid-19 ha colto tutti impreparati – nel racconto del presidente Sicp, anche il virus – le persone che sono state contagiate dalla malattia e non sono riuscite a superarla, non hanno finito la propria esistenza in maniera appropriata». Soli nei loro letti, senza poter salutare i cari nella maggior parte dei casi.
«Mancavano sì le risorse – ha proseguito –, ma soprattutto le conoscenze per dare risposte a queste persone. Sappiamo che molti sono morti senza entrare in terapia intensiva, oppure isolati dai propri cari. Tutti questi aspetti sono al centro dell’obbiettivo delle cure palliative: stare vicino ai malati che sono in fine vita in maniera consapevole, cercando di organizzare un supporto alle persone che si trovano in questa situazione».
Anche chi riceveva le cure palliative per altre ragioni e in ambienti idonei, ha spesso dovuto interromperle. «Persone assistite in hospice – ha analizzato Penco – non hanno potuto avere le cure più adeguate perché il Covid ha costretto a provvedimenti di igiene pubblica. Per evitare che il contagio si diffondesse si sono dovute interrompere le visite nelle strutture o ridurre in maniera importante e questo ha cambiato le cose. Gli operatori si sono dati da fare per trovare delle alternative, sfruttando la tecnologia. Ma il contatto si è trasformato in virtuale, per cercare di mantenere inalterato il rapporto malato-operatore sanitario-caregiver. Tutto questo ha creato un gran disagio, non si può negare».
Secondo il presidente di Sicp, in questa situazione, una scuola di specializzazione che prepari i medici specificatamente in cure palliative, va perfettamente incontro alle esigenze future. Prima per chi usciva dalla facoltà di medicina era obbligatorio accumulare dei crediti in questo ambito, ma mancava una struttura specifica. «Credo che sia giusto – ha affermato Penco – che una persona scelga di fare questo mestiere, senza improvvisarsi durante un altro percorso. Come Sicp lo consideriamo un obbiettivo raggiunto e un salto culturale per l’Italia».
In primis per accumulare quelle skills relazionali che servono in situazioni come quelle legate all’inguaribilità: «Sappiamo che anche gli specialisti hanno molte difficoltà ad impostare un discorso chiaro di fronte a un paziente affetto da una malattia inguaribile. Perché non si è preparati ad affrontarli. Il malato non informato si trova ad affrontare scelte improvvise di fronte a possibilità diverse: le cure palliative non aumentano la possibilità di vita, ma possono renderla migliore».
Da non tralasciare anche, però, la forza organizzativa che possono avere nel Ssn i medici palliativisti: «Danno anche un benessere di tipo economico, se le cure palliative fossero applicate nella maniera giusta si diminuirebbe la mortalità ospedaliera e quindi anche il numero delle giornate in ospedale sarebbe inferiore. Sappiamo che il territorio è molto più efficiente per questo tipo di malati».
«È chiaro – ha concluso infine Penco – che questa specialità in cure palliative entrerà in vigore nel 2021, i primi specialisti li avremo dopo 4 anni e quindi in questi anni soffriremo una carenza di medici generale. Sappiamo che molti andranno in pensione senza un numero adeguato di sostituti, intanto però questo è un investimento per il futuro strategicamente, considerando che le persone vivranno sempre di più ma diventeranno sempre più fragili e avranno bisogno di cure come queste, di cui siamo orgogliosi e convinti che sia la strada giusta».
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