Un anno fa la firma della “Urban Health Rome declaration”. Il vicepresidente dell’Associazione comuni italiani e dell’intergruppo parlamentare presidente dell’Intergruppo parlamentare ‘Qualità di vita nella città’: «Inattività fisica costa in Europa 80 miliardi di euro». Poi sottolinea: «Parlamento un po’ assente, serve Commissione permanente su questi temi»
In un mondo in cui presto due terzi della popolazione sarà concentrata nelle grandi città diventa sempre più importante il concetto di ‘urban health’ che si associa strettamente alla vivibilità e alla sostenibilità dei nostri centri urbani. Ed è proprio nelle grandi aree metropolitane che si concentra il maggior numero di casi di malattie non trasmissibili, a cominciare dal diabete: in Italia una persona su tre con diabete risiede nelle 14 città metropolitane italiane e a Roma è diabetico il 6,5% della popolazione, contro il 5,4% della media nazionale.
Ad un anno dalla “Urban Health Rome declaration” che elencava le misure necessarie per migliorare la salute delle città, a Roma è stato fatto il punto sulle strategie nazionali e globali in merito nell’incontro presso la Sala Polifunzionale del Consiglio dei Ministri dal titolo “Sustainable cities promoting urban health” nell’ambito del terzo Forum italo-danese sulla salute urbana.
Tanti i relatori, dal presidente del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita Andrea Lenzi al vicepresidente ANCI e deputato Roberto Pella, dal rettore emerito dell’università di Tor Vergata Renato Lauro al Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi. E poi l’ambasciatore di Danimarca in Italia Erik Vilstrup Lorenzen e il capo del Dipartimento di salute pubblica della municipalità di Copenaghen Katrine Schjønning. Non a caso il progetto Cities changing Diabetes è nato quattro fa proprio in Danimarca e ha coinvolto metropoli di tutto il mondo: la prima in Italia è stata Roma. Nelle città aderenti al programma i ricercatori si impegnano ad individuare le aree di vulnerabilità, i bisogni insoddisfatti delle persone con diabete e identificare le politiche di prevenzione adatte.
Tra i punti salienti del forum, la presentazione dell’analisi qualitativa della vulnerabilità sociale del diabete condotta dal Censis in base alla quale viene evidenziato che vivere in città influisce non solo sulla diffusione del diabete ma anche sulla prevenzione, sul benessere e sul controllo della malattia. Il luogo in cui si vive non è l’unico fattore ad influenzare il nostro rapporto con la malattia: determinanti anche livello di istruzione, reddito, cultura del cibo e mezzi di spostamento.
«Abbiamo realizzato uno studio – spiega Ketty Vaccaro, Responsabile Area Welfare e Salute Censis – che ci ha consentito di mettere insieme gli aspetti individuali, cioè le caratteristiche sociali, economiche, l’età dei pazienti con il luogo in cui vivono ma anche con le abitudini di vita che hanno e con le concezioni culturali che hanno. L’insieme di questi fattori determina una minore o maggiore vulnerabilità al diabete in cui sono importanti gli aspetti della tradizione del cibo, così come è importante la frequenza del centro di diabetologia, il livello di istruzione, ma soprattutto il peso del contesto in cui si vive».
Lo studio è stato realizzato su pazienti dell’area metropolitana di Roma: spiccano le differenze tra una zona e l’altra dell’area metropolitana. «Tra chi vive a Roma e chi vive fuori Roma c’è anche una differenza legata alla possibilità di assumere dei comportamenti salutisti – continua Vaccaro – I cittadini dei comuni della cintura romana sono più avvantaggiati per la possibilità di muoversi su un territorio che facilita il fatto di camminare a piedi, il fatto di avere momenti di convivialità in zone facilmente raggiungibili. Riescono in qualche modo ad adottare uno stile di vita sano più o meno consapevolmente grazie alle caratteristiche del luogo in cui vivono. I ‘cittadini fatalisti’, che da un punto di vista socio economico sono sostanzialmente equivalenti ai ‘salutisti da contesto’, vivono una condizione dentro la città che è fortemente limitante rispetto all’opportunità di assumere comportamenti salutisti tanto è vero che ritengono di non avere la possibilità di controllare realmente il diabete attraverso il proprio comportamenti individuale, né tantomeno di fare attività di prevenzione che possano essere efficaci. Allo stesso modo i giovani possono essere molto preoccupati dal diabete, lo controllano, però tendono ad essere trasgressivi tanto è vero che tendono a essere i più consapevoli e informati ma anche quelli con l’indice di massa corporea più elevato».
In questo quadro, un ruolo fondamentale nel promuovere politiche di sviluppo sostenibile e promozione attiva della salute lo svolgono i comuni, il cuore pulsante del nostro Paese. Non a caso l’Urban Health Roma Declaration fu firmata dal Ministro della Salute e dal presidente dell’ANCI, l’associazione dei comuni italiani. Alla conferenza è arrivato il contributo di Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza e dell’assessore al Welfare del Comune di Napoli, Roberta Gaeta. La dichiarazione di Roma “riconosce a ogni cittadino il diritto ad una vita sana e integrata nel proprio contesto urbano” e tra le varie azioni che suggerisce c’è anche l’idea di creare la figura dell’Health City Manager a cui spetterebbe il compito di guidare il processo di miglioramento della salute in ambito urbano.
«Dopo la dichiarazione firmata dal presidente ANCI Antonio Decaro, abbiamo fatto sì che quel manifesto sia stato adottato non solo dalle 14 città metropolitane italiane: oggi sono quasi duemila i comuni italiani che l’hanno adottato. Quando si semina bene si raccoglie. Oggi i sindaci sono i primi che possono dare un grosso impulso su questa attività di salute e sono i primi che possono dare dei risultati perché sono quelli più a diretto contatto con i cittadini – sottolinea Roberto Pella, vicepresidente vicario dell’ANCI e copresidente dell’intergruppo parlamentare “Qualità della vita nelle città” – I sindaci devono cercare di rispondere a quelle che sono oggi alcune tematiche: in primo luogo urbanizzare le città conformandole a quella che è la nuova volontà dei cittadini che vogliono vivere il contesto urbano. Non possiamo più tenere le città come le abbiamo tenute fino ad oggi, quindi bisogna cambiare il contesto urbano con un sistema più efficace per dare spazi vivibili, con spazi dove poter fare attività, dove si possa camminare. Bisogna poi abbattere fortemente il fenomeno delle polveri sottili, incentivare l’uso della bicicletta e dei trasporti pubblici, abbattere l’uso delle automobili, va fatta una forte azione a livello scolastico dando un concetto di vera e sana alimentazione, dobbiamo far capire ai genitori quali sono le cose che bisogna e non bisogna mangiare, bisogna in qualche modo incentivare l’attività fisica attraverso un coinvolgimento di quello che è il mondo sportivo: il 98% dell’impiantistica sportiva è di proprietà dei comuni. Questa impiantistica va migliorata, va data la possibilità di utilizzo alle federazioni sportive e alle associazioni e poi serve un maggior numero di ore scolastiche attinente l’attività fisica. Oggi l’inattività fisica costa in Europa 80 miliardi di euro, immaginiamo con la liberazione di 80 miliardi cosa si potrebbe fare in tutti i 28 paesi della Ue. Sembrano cose banali, semplici ma vanno coordinate e gestite».
«Dobbiamo rivoluzionare la nostra mentalità – conclude Pella – Il Parlamento è stato finora un po’ assente perché non c’è una vera Commissione permanente che in qualche modo si concentri su questi temi. L’intergruppo parlamentare “Qualità di vita nelle città” ha la volontà di agire sulle varie proposte che arrivano nelle diverse Commissioni permanenti e devo dire che questo lavoro si sta traducendo in atti concreti, anche perché lo stesso presidente della Camera Roberto Fico è molto attento su questo tema e fanno parte dell’intergruppo la maggior parte dei presidenti delle stesse Commissioni. Dobbiamo incentivare le varie Commissioni a lavorare su questi temi».