I bambini affetti da patologie sono spesso rifiutati. Poleggi (Pro Vita & Famiglia): «Vengono restituiti al mittente come la merce difettata: è la madre naturale a doversene prendere cura, oppure lo Stato attraverso dei sussidi non oltre la maggiore età»
Culle allineate, l’una accanto all’altra, in una grande camerata in un albergo di Kiev. Decine e decine di neonati piangenti che attendono di essere accuditi. Sono queste le immagini del video che, in pochi giorni, ha fatto il giro del mondo. I protagonisti sono tutti bambini nati da maternità surrogata durante il lockdown, bloccati in Ucraina dall’emergenza Covid: le frontiere sono chiuse e i genitori che avrebbero dovuto adottarli non possono raggiungerli.
Ma questo non è il primo caso. «È successo anche in Nepal quando c’è stato il terremoto e succede tutti i giorni quando i bambini nati da un utero in affitto non rispondono ai desideri dei committenti», dice Francesca Romana Poleggi, membro del direttivo di Pro Vita & Famiglia, un’associazione che opera in favore dei bambini, delle madri e dei padri, difendendo il diritto alla vita, al concepimento ed alla morte naturali.
«I neonati che vengono alla luce affetti da patologie sono troppo spesso rifiutati da quelle stesse donne e quegli stessi uomini disposti, fino ad un attimo prima, a pagare anche 100mila euro ed oltre per poter essere chiamati mamma o papà», spiega Poleggi.
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E che fine fanno questi bambini “rifiutati”? «Come la merce difettata vengono restituiti al mittente – sottolinea l’esponente di Pro Vita & Famiglia -: è la madre naturale a doversene prendere cura, oppure lo Stato attraverso dei sussidi che, comunque, dureranno al massimo fino alla maggiore età. Uno dei primi casi raccontato dalle cronache dei giornali di tutto il mondo è stato quello di baby Gammy, un bambino con sindrome di Down nato in Thailandia da madre surrogata – racconta Poleggi -. A commissionare la fecondazione era stata una coppia australiana che, alla fine della gravidanza gemellare, decise di portare con sé solo il piccolo sano, lasciando Gammy alla madre naturale. La donna, nonostante fosse poverissima, non ha abbandonato il piccolo e lo ha tirato su, anche grazie al denaro raccolto da molti benefattori che si sono mobilitati in loro aiuto. E di baby Gammy, affetti da sindrome di Down o da altre patologie, ce ne sono moltissimi, la maggior parte dei quali abbandonati a sé stessi sin dalla nascita, soprattutto in Ucraina, un vero e proprio paradiso della maternità surrogata».
Ma i bambini non sono le uniche vittime: «Definisco la maternità surrogata una pratica abusante – sottolinea Poleggi – perché comporta, per denaro, lo sfruttamento delle donne coinvolte. Innanzitutto, di coloro che per poter vendere i propri ovuli devono sottoporsi ad iperstimolazione ovarica, una pratica che può avere anche conseguenze serie per la salute. E, spesso, queste donne non sono nemmeno ben informate sui reali rischi. Poi, anche chi offre il proprio grembo non subisce meno danni, poiché nella maggior parte dei casi si tratta di giovani costrette dalla necessità economica. Donne poverissime che, affittando il proprio utero, sperano di poter avere un futuro migliore. In India, ad esempio, dove per fortuna le leggi più recenti stanno ponendo dei limiti a questo sfruttamento, una donna viene pagata soltanto 2mila euro per i nove mesi di gestazione, contro i 50-100mila euro che i compratori pagano agli intermediari. Questo accade, però, solo nei Paesi più poveri. In quelli più evoluti, come la California ad esempio, il compenso riservato alle donne è molto più alto e, di conseguenza, “acquistare” un bambino costa molto di più, fino anche a 150mila euro».
Queste intermediazioni non sono possibili ovunque: «Sono consentite ad esempio in Grecia, nei Paesi dell’est e in alcuni stati degli Stati Uniti e dell’estremo Oriente. In altri luoghi, come nel Regno Unito, è ammessa la maternità solidale, ovvero l’utero in affitto gratuito. Una gratuità spesso solo formale, in quanto per la donna può essere comunque previsto un rimborso spese, talvolta ingente. Ad ogni modo, anche qualora l’utero in affitto fosse totalmente gratuito, andrebbe sottolineato che i bambini non si comprano, ma neanche si regalano, poiché sono persone e non cose. E le madri surrogate che offrono l’utero per spirito di solidarietà – commenta il membro del direttivo di Pro Vita & Famiglia – testimoniano che la pratica è comunque abusante: la separazione dal bambino è molto dolorosa per la madre, ma anche per il piccolo che potrà avere gravi conseguenze psico-fisiche».
In altri Paesi ancora, come in Italia, la maternità surrogata, invece, è illecita. «Nel nostro Paese – dice Poleggi – è la legge n. 40 del 2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, a vietarla. A questa sono collegate altre norme come l’art. 71 della legge 184 del 1983 sull’adozione e l’art. 167 del codice penale che, vietando l’alterazione dello stato civile, vieta la mercificazione degli esseri umani. Da ricordare anche la norma della riduzione in schiavitù – art. 600 del codice penale – poiché le donne “usate” per questa pratica diventano schiave per nove mesi. E non accade solo nei Paesi del terzo mondo, dove spesso sono recluse anche fisicamente, ma anche nella democratica California, dove queste donne firmano dei contratti che le impegnano a perdere molti diritti e libertà di autodeterminazione, assecondando gusti, abitudini e credenze dei genitori committenti».
Nessuno, tuttavia può impedire agli italiani di andare all’estero ad affittare un utero: esistono delle vere e proprie agenzie specializzate che cercano di fornire assistenza medica e legale a chiunque desideri avere un bambino attraverso la maternità surrogata. «Una pratica che coinvolge molti soggetti – spiega Poleggi -. In primis la coppia o il single che, tramite un intermediario (spesso una clinica della fertilità) paga una donna disposta ad affittare il proprio grembo. La coppia può offrire i propri gameti (ovuli e spermatozoi) o può acquistarli da terzi. Di conseguenza, quando questo bambino nascerà avrà due genitori di intenzione (i compratori), e tre biologici, ovvero l’uomo che ha ceduto il liquido seminale, la donna che ha donato l’ovulo e la madre surrogata. In tutto, cinque diversi individui che a vario titolo – conclude – potrebbero un giorno o l’altro vantare diritti genitoriali».
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