Per creare una cultura dei vaccini «dobbiamo accogliere le paure dei genitori e non etichettarle come ‘mancanza di civiltà’» così Stefano Vicari, Responsabile Neuropsichiatria Infantile, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù
Sono trascorsi 20 anni da quello studio pubblicato su Lancet, a firma Andrew Wakefield, che sosteneva la correlazione tra autismo e vaccini. È storia nota come finì la carriera del medico inglese quando venne alla luce il suo coinvolgimento in attività fraudolente contro le case farmaceutiche produttrici dei vaccini e il suo tentativo di brevettare un sistema alternativo di profilassi. Nonostante Wakefield sia stato radiato e i suoi studi siano stati ritrattati, ancora oggi la scia delle sue teorie lascia spazio a perplessità e timori. Sul perché il tema vaccini susciti ancora tante polemiche e molteplici resistenze, risponde Stefano Vicari, Responsabile Neuropsichiatria Infantile, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.
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Il timore che il proprio bambino si ammali di autismo è uno dei motivi che spinge alcuni genitori no vax a non vaccinare i figli. Di fatto c’è una correlazione fra autismo e vaccini?
«Nessuna correlazione. Se vogliamo parlare di ‘correlazione’ l’unica che posso considerare è quella temporale. Mi spiego meglio: nel bambino la fase in cui possono cominciare ad insorgere i primi segni di autismo è in quell’arco temporale che va dai 12 ai 18 mesi ed è proprio il periodo in cui ricorrono le vaccinazioni. Questa coincidenza temporale in passato ha fatto temere o ipotizzare che ci potesse essere una correlazione causale, ossia che i vaccini potessero determinare l’autismo. Su questo sono stati condotti tantissimi studi da parte di organismi indipendenti (per capirci non pilotati da case farmaceutiche) come l’organizzazione Mondiale della Sanità, enti che hanno una serietà maggiore di Google o di Facebook e tutti hanno dimostrato un’assenza di correlazione tra vaccino e autismo. Faccio un esempio: in Giappone, un Paese densamente popolato, è stata addirittura sospesa la vaccinazione per un periodo temporale. In quel lasso di tempo i casi di autismo non solo non sono diminuiti ma anche leggermente aumentati. La coincidenza è temporale, non c’è rapporto causale, è come dire che l’estrema unzione si correla alla morte. È ovvio che l’olio santo non provoca il decesso, come i vaccini non provocano l’autismo. Questo è poco ma sicuro».
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Dunque, sappiamo cosa può dare origine all’autismo?
«Ahimè no, o meglio sappiamo alcune cose, come per molte malattie, per esempio il cancro, esistono fattori di rischi. Ad esempio la genetica è un fattore elevato di rischio; se una coppia ha già un figlio autistico (sia che venga vaccinato oppure no) la possibilità che anche un secondogenito sia autistico aumenta. Pensi soltanto che la probabilità di avere un figlio autistico senza predisposizione genetica è dell’1%, ma se c’è propensione familiare il rischio sale al 26%. Inoltre sappiamo che ci sono fattori ambientali che possono facilitare la comparsa, per esempio la nascita gravemente prematura oppure una condizione di sottopeso. Ma anche l’assunzione durante la gravidanza di sostanze psicotrope, alcol, fumo in grande quantità, possono influire come l’età paterna al momento del concepimento. Infatti quando il padre ha più di 50 anni il rischio sale. Altro elemento da considerare è l’esposizione ad agenti inquinanti: ci sono degli studi che documentano che vivere al piano terra di una grande città comporta una probabilità maggiore di incorrere nel rischio autismo rispetto che vivere all’ultimo piano dove l’esposizione agli idrocarburi è minore. Quindi l’autismo, come altre malattie, riconosce più fattori che possono intervenire insieme – con proporzioni diverse – nel determinare l’autismo nel bambino».
Quali consigli darebbe ai pediatri e ai medici di base per creare una cultura delle vaccinazioni?
«Io ritengo sia necessario più che altro intervenire sui genitori. In che modo? Noi medici dobbiamo essere empatici con i genitori e accogliere la loro preoccupazione più che legittima perché le informazioni che troviamo sono moltissime, spesso non controllate. Dobbiamo ascoltare di più le mamme e i papà e accogliere le preoccupazioni senza bollarle come allarmismi, terrori immotivati o segnali di mancata civiltà e informare quanto possibile».