Bagolan (chirurgo neonatale): «I parti sono selezionati da una Commissione ad hoc, a seguito di diagnosi prenatale. Si tratta di gravi patologie che causano un altissimo rischio di mortalità o di danni importanti, come quelli neurologici per asfissia»
Chiara (ma il nome è di fantasia) il 7 gennaio 2021 ha varcato la soglia del padiglione Pio XII dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma in cerca di possibilità: a se stessa ha voluto concedere l’opportunità di diventare madre e al figlio che portava in grembo quella di sopravvivere al parto, aspirando ad una vita normale.
Prima di Chiara altre 99 donne in dolce attesa hanno oltrepassato la stessa porta, animate dalle medesime speranze. Dal 2017, all’interno del Bambino Gesù, è operativo un punto nascita per casi selezionati di alta complessità, che possono richiedere interventi in emergenza al momento del parto o poco dopo. «Nascere all’interno di un policlinico pediatrico significa avere l’immediata disponibilità, in un’unica sede, di tutte le più avanzate competenze ostetriche, cardiologiche, intensive e chirurgiche», spiega il professore Pietro Bagolan, direttore del Dipartimento Medico Chirurgico del feto-neonato-lattante del Bambino Gesù.
È un’equipe di specialisti – ginecologi, neonatologi, chirurghi neonatali, psicologi – a selezionare i bambini ad alto rischio, candidati a nascere all’interno dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù. «Innanzitutto, è necessario effettuare una diagnosi prenatale – dice Bagolan -. Non tutte le patologie gravi, ma la maggior parte, sono diagnosticabili in utero».
Le donne arrivano al Centro della struttura della Santa Sede da qualsiasi parte d’Italia: dopo aver individuato la patologia, viene stabilito il percorso da seguire, dalla programmazione del parto all’assistenza necessaria al nascituro. «Una commissione di eleggibilità seleziona i parti che dovranno avvenire direttamente all’interno dell’ospedale pediatrico – specifica il direttore Bagolan -. Si tratta di bambini che al momento della nascita sono in pericolo di vita o che rischiano di subire danni importanti, soprattutto di natura neurologica per asfissia. Tra le patologie più frequenti ci sono alcune cardiopatie, in particolare la trasposizione delle grandi arterie (le arterie più importanti del corpo umano, l’aorta e l’arteria polmonare, hanno un’origine “invertita” dal cuore), e l’ernia diaframmatica congenita (un’anomalia caratterizzata dal passaggio di visceri dalla cavità addominale nel torace, attraverso un difetto del diaframma)».
Ogni volta che viene selezionato un parto da programmare all’interno della struttura della Santa Sede si attiva un particolare protocollo: la donna viene ricoverata all’ospedale San Pietro Fatebenefratelli (con cui l’ospedale pediatrico ha una convenzione) e portata al Bambino Gesù al momento del parto. Alcune ore dopo il cesareo, la neomanna verrà riportata in ambulanza al reparto di ostetricia e ginecologia di provenienza.
Per la donna questo è uno dei momenti più dolorosi: deve separarsi dal suo bambino e concentrarsi sul recupero di quelle forze necessarie ad occuparsi del piccolo appena nato. Ma, intanto, nonostante il distacco, sa di averlo lasciato nelle mani migliori che potesse trovare. «Questa organizzazione è unica in Italia – sottolinea Pietro Bagolan -, un sistema che permette di assistere il bambino nel momento stesso in cui viene alla luce. In alcuni casi si interviene immediatamente con la chirurgia, in altri con procedure più o meno invasive, in altre situazioni ancora è necessario un approccio intensivo, con intubazione e ventilazione».
Un lavoro così delicato e preciso, da compiere su corpicini che pesano anche meno di un chilo, che ad occhi esterni ed inesperti appare eroico. «Che ci piaccia essere definiti degli eroi è indubbio – dice il professore -. Ma siamo delle persone che fanno il proprio mestiere», aggiunge. Una professione che pone di fronte a non poche complicazioni: «I momenti più difficili si verificano quando per uno stesso bambino devono intervenire molti specialisti in sequenza – racconta Bagolan -. Pianifichiamo percorsi che vanno da un’assistenza minima ad una di livello massimo, passando anche per la chirurgia o per l’ECMO (l’Extra Corporeal Membrane Oxygenation, una tecnica di circolazione extracorporea alla quale si ricorre temporaneamente quando i pazienti hanno un’insufficienza cardiaca e/o respiratoria grave che mette in pericolo la vita). Il fermarsi ad uno step, piuttosto che ad un altro, dipende dalla risposta del bambino. Non si salta mai nessuno dei gradini previsti: si rischierebbe di essere invasivi quando potrebbe non essere necessario. Il ritmo è scandito da un “direttore di orchestra”, uno specialista che si dedica solo alla gestione del passaggio da un livello di assistenza all’altro».
Accanto a questa prima complessità di tipo tecnico, ne esiste un’altra di natura medica. «Si verifica quando, pur essendo di fronte a problematiche che sappiamo come affrontare, senza la necessità di seguire un programma di assistenza graduale (come quello prima descritto) – spiega il chirurgo neonatale -, il bambino è così grave che non ce la fa. Qui intervengono difficoltà di altro ordine: umano, etico, morale, filosofico, come dir si voglia. Questo perché noi medici siamo geneticamente tarati a sconfiggere la morte, ma non sempre ci riusciamo».
Fortunatamente questi momenti sono molto rari rispetto a quelli di gioia: «La soddisfazione più grande è vedere i genitori stringere tra le braccia il loro piccolo – racconta Bagolan -. Lo stesso bambino al quale, fino alla fine della gravidanza, non avevano dato neanche un nome o comprato un vestitino. E che ora, invece, non solo è venuto alla luce, ma con molta probabilità avrà una vita del tutto normale».
Di questi giorni il bambino non conserverà alcun ricordo. I genitori, invece, potranno trasformare il dolore vissuto in un setaccio che, nel corso della vita, gli permetterà di valorizzare solo ciò che realmente è importante, lasciando cadere la sabbia sottile, tutte le cose effimere, senza provocare troppo rumore per nulla.
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