Salute 22 Febbraio 2022 15:50

Vulvodinia e dolore pelvico cronico, un muro da abbattere con formazione specialistica e sensibilizzazione

Schettino (Policlinico Vanvitelli): «Troppe donne si scontrano con diagnosi sbagliate: la chiave di volta nell’approccio multidisciplinare e in una terapia su misura, con attenzione alle comorbidità associate»

Dolori costanti, invalidanti, che impattano su ogni aspetto del vivere quotidiano. Un dolore che spesso tarda ad essere compreso, che viene frainteso, talvolta minimizzato. E’ quello che le donne affette da vulvodinia e dolore pelvico cronico devono affrontare, in un lungo e tortuoso percorso che passa tra l’insorgere dei sintomi e una corretta diagnosi e presa in carico. Si tratta di una patologia che, grazie all’intervento dell’influencer Giorgia Soleri, sta avendo una notevole cassa di risonanza sui social, e non solo. Sempre più donne che combattono con questa malattia si sentono oggi più rappresentate, sebbene la strada verso una diagnosi precoce sia ancora lunga e passa per una formazione specialistica sempre più avanzata e una sempre maggiore consapevolezza sul tema. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Maria Teresa Schettino, ginecologa presso l’AOU “L.Vanvitelli” di Napoli, sede del principale Ambulatorio dedicato al Dolore Pelvico nel sud Italia (attualmente sospeso a causa della pandemia) con l’obiettivo di sostenere a 360 gradi le pazienti affette da dolore pelvico cronico attraverso un percorso terapeutico strutturato e multidisciplinare, dall’ambito uroginecologico a quello psicologico e comportamentale.

Da quali sintomi e caratteristiche si riconoscono la vulvodinia e il dolore pelvico cronico?

«Si tratta di patologie il cui comune denominatore è il dolore, che è una reazione ad un danno tissutale, reale o potenziale. Ed è qui che si apre il tema della problematica diagnostica relativa al dolore pelvico cronico: per spiegare il dolore si cerca qualcosa che sia tangibile, e questo può essere vero per l’endometriosi ad esempio, ma non lo è in quelle alterazioni dei processi neurofisiologici che caratterizzano la vulvodinia, in cui, in assenza di un’eziopatologia specifica, ad esempio infettiva, c’è un’alterazione degli stimoli nervosi che trasformano un impulso da normale a doloroso, nonostante non ci siano alterazioni tissutali e l’apparato genitale si presenti normale dal punto di vista anatomico e funzionale. La vulvodinia è caratterizzata da quello che le pazienti riferiscono come un bruciore persistente o dolore alla vulva, localizzato o esteso, tale da impedire alla donna di vivere normalmente la propria quotidianità, rendendo difficoltosa anche la minzione, l’evacuazione, impattando sulle attività lavorative e sociali oltre che, naturalmente, sulla vita sessuale. Un dolore invalidante, insomma, che varia per intensità anche in base all’eziopatogenesi e da cui, almeno nella fase avanzata, è impossibile trovare sollievo nella fase avanzata».

Come funziona l’iter diagnostico e cosa lo rende così complesso?

«Scontiamo ancora forti ritardi diagnostici sulla vulvodinia, e le pazienti arrivano in ambulatorio con un forme già avanzate e dolori invalidanti. Si tratta di pazienti che spesso arrivano attraverso un’autodiagnosi, perché si sono informate e rese conto della matrice neuropatica del loro disagio, magari reduci da visite specialistiche che attribuivano il dolore ad una mera fragilità psicologica solo perché non c’era nulla di tangibile. Dal punto di vista epidemiologico è una patologia in crescita perché viene diagnosticata a un numero sempre maggiore di donne, soprattutto nell’età fertile. Uno dei primi sintomi è infatti la dispaurenia, e quindi l’impossibilità di avere rapporti sessuali senza avvertire dolore. L’iter diagnostico si compone di un percorso specialistico che porta al riconoscimento dei trigger point evocativi del dolore pelvico, ma a monte deve esserci ovviamente un adeguato esame clinico e strumentale dell’apparato genitale, per escludere patologie come endometriosi o patologie ginecologiche associate, come le infezioni, in particolare quella da HPV, così come la fibromialgia o patologie reumatologiche che predispongono a quadri clinici più complessi di dolore pelvico cronico».

A livello terapeutico come è possibile intervenire?

«Oggi abbiamo diverse possibilità sia dal punto di vista farmacologico che fisico, tuttavia la risoluzione del problema non dipende tanto dal farmaco “giusto”, ma dal come lo si usa e dal momento giusto in cui iniziarlo, dalla corretta posologia e dal corretto accompagnamento al giusto integratore. Queste pazienti spesso hanno anche bisogno di correggere degli stili comportamentali non solo fisici ma anche psicologici, che possono innescare quei meccanismi che portano ad un ipertono muscolare che è un fattore di rischio. La terapia del dolore pelvico cronico, in sintesi, non può essere standardizzata ma deve essere costruita su misura per la singola paziente. A una corretta presa in carico multidisciplinare, farmacologica e psicologica, può corrispondere il successo della terapia».

Come promuovere una maggiore consapevolezza per facilitare la presa in carico?

«Oggi si parla molto di più di dolore pelvico cronico, grazie al fatto che le pazienti stesse, anche attraverso i social, hanno dato voce a questa problematica. Vedo ancora oggi troppo spesso peregrinare pazienti a cui gli specialisti rispondono che il problema è dovuto esclusivamente a una fragilità psicologica. In questo senso la formazione specialistica è fondamentale, e c’è necessità di aumentare ancora di più la consapevolezza attraverso un’opera di sensibilizzazione, che passa attraverso il dialogo con le donne, dalle scuole alle aziende sanitarie, senza escludere nessun canale».

 

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