Tra aprile e giugno del 2021 le persone che hanno rinunciato volontariamente al proprio posto di lavoro sono aumentate dell’85%. Ma chi sperimenta un nuovo impiego potrebbe trovarsi a fare i conti con la sindrome dell’impostore. Pagliariccio (psicologo): «Ne soffrono soprattutto coloro che hanno bassa autostima: se raggiungono un risultato ritengono che il merito sia attribuibile alla sola fortuna. Vivono nella costante sensazione di imbrogliare l’altro»
Il 2021 potrebbe passare alla storia come l’anno delle dimissioni volontarie: solo tra aprile e giugno sono quasi 500 mila – 290 mila uomini e 190 mila donne – le persone che hanno rinunciato al proprio posto di lavoro, l’85%in più di coloro che hanno fatto la medesima scelta nello stesso periodo del 2020. A firmare le dimissioni sono stati soprattutto giovani tra i 26 e i 35 anni, impiegati di aziende del Nord Italia che, con la loro scelta, in 3 casi su 4, hanno colto di sorpresa il proprio datore di lavoro. L’aumento dell’inclinazione ad una maggiore flessibilità tra i lavoratori italiani emerge da alcuni dati di una recente indagine condotta dal Centro Ricerche Aidp su un campione di circa 600 aziende. Tuttavia, il cambiamento non sempre coincide con un miglioramento effettivo. Chi affronta una situazione nuova, soprattutto in ambito lavorativo, potrebbe trovarsi a fare i conti con la “sindrome dell’impostore”
«Ne soffrono soprattutto coloro che hanno bassa autostima – spiega Cristian Pagliariccio, psicologo, membro dell’Ordine degli Psicologi del Lazio -. Questi individui sono talmente convinti di non essere in grado di portare a termine un lavoro che quando raggiungono un risultato, soprattutto se encomiabile, ritengono che il merito sia attribuibile alla sola fortuna e non alle proprie capacità. È per questo che si sentono degli impostori: hanno la costante sensazione di imbrogliare l’altro. E se si trovano in contesti nuovi, tra colleghi sconosciuti, come accade quando si comincia un nuovo lavoro, la condizione sperimentata non può che peggiorare».
La sindrome dell’impostore non è una patologia, piuttosto una condizione sperimentata da determinati soggetti in fasi più o meno lunghe della propria vita, soprattutto in ambito lavorativo. «Alcune recenti ricerche, pur sottolineando un’importante diffusione del fenomeno – ne soffrirebbe circa l’80% dei lavoratori – hanno evidenziato come utilizzare il termine sindrome possa essere fuorviante – spiega lo psicologo -. Non si tratta di una malattia a cui è possibile attribuire un’etichetta diagnostica, ma di un’esperienza. Una condizione che può essere sperimentata soprattutto in quelle fasi dell’esistenza in cui ci si trova ad affrontare un compito nuovo, in un contesto altrettanto sconosciuto», sottolinea Pagliariccio.
Oltre alle caratteristiche individuali, anche il contesto può aumentare il rischio di sviluppare la sindrome dell’impostore. «Nei luoghi di lavoro in cui spicca la figura di un leader, di solito un uomo maturo e d’esperienza, è più probabile che ci si possa sentire in soggezione, inadeguati – aggiunge lo psicologo -. Chi soffre della sindrome dell’impostore, in questo contesto ancora più che in altri, tenderà a nascondersi per evitare di essere giudicato o di apparire come una persona di poco valore».
«Individuare chi sperimenta la sindrome dell’impostore è molto difficile, poiché chi vive questa esperienza nasconde ciò che prova e cela ciò che è dietro ciò che fa, caricandosi di lavoro – spiega Pagliariccio -. Se queste persone imparassero a parlare di ciò che provano sarebbe tutto più semplice: si stupirebbero nello scoprire di non essere “soli al mondo”, di essere circondati da molti individui sopraffatti dalle medesime insicurezze», assicura lo psicologo.
E chi ha preso coscienza della sua condizione di “impostore” è meglio che non continui a rimandare ad un indefinito domani il suo “coming out”: «A lungo andare questa esperienza potrebbe avere seri effetti sulla salute dell’individuo. Sempre intento a farsi carico di un lavoro dopo l’altro, chi soffre della sindrome dell’impostore potrebbe accumulare stress e stanchezza, fino – conclude Pagliariccio – a sperimentare anche condizioni più gravi di burnout e depressione».
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