Due giorni a Sperlonga sono sufficienti per tornare alla normalità: poche mascherine, distanziamento non rispettato, assembramenti inevitabili. Ma basta un bambino con una maschera da snorkeling per ricordare cosa è accaduto 100 giorni fa
Ho trascorso il weekend al mare. A Sperlonga, la “perla del Tirreno”. Un paio d’ore di macchina da Roma. E sono tornata alla normalità. Se ogni tanto non ci fossero timidi cartelli a ricordare l’obbligo della mascherina, rispettato da pochissimi, nessuno direbbe che (forse) siamo appena usciti dall’uragano coronavirus.
In spiaggia il distanziamento tra gli ombrelloni è tale e quale allo scorso anno. Nessuno misura la temperatura all’ingresso. Non c’è l’igienizzante per le mani. Sdraio e lettini non vengono sanificati a fine giornata. Zero mascherine. Meno palloni e racchettoni, ma qualcuno a giocare a riva c’è. In mare gonfiabili di ogni tipo, colore e dimensione. Carretti di vestiti, costumi e “grattachecche”. Venditori di braccialetti con decine di cappelli impilati in testa. Coccobello coccofresco. Tutto normale, insomma. Una normale spiaggia italiana. Del Covid, nemmeno l’ombra.
È vero, devi prenotare l’ombrellone e ti senti anche fortunato quando trovi posto. Lo stabilimento in cui sono andata chiede di compilare un modulo in cui specificare il proprio stato di salute e lasciare i contatti personali. Dovesse mai risultare positivo qualcuno degli avventori, verrei contattata per fare il tampone. Qua e là qualche cartellino che ricorda che fino all’ombrellone e al bar si deve indossare la mascherina. Ignorato da tutti. Qualche X per terra disegnata con uno spray giallo evidenziatore a ricordare il metro di distanza da rispettare in caso di fila al bar. E basta.
La sera, al paese, la situazione non è molto diversa. Rispettare le distanze tra gli stretti e ripidi vicoli di Sperlonga è pressoché impossibile, quando è presa d’assalto come lo era sabato. Ed è tornato il senso di stupore, quando qualcuno passeggiava con la mascherina indosso. Non al braccio o sotto il mento, ma davanti naso e bocca. Pochi i responsabili, decisamente una minoranza. A Roma mi ero abituata a vedere persone mascherate in giro, ricordo e avvertimento costante di quello che è stato e di quello che potrebbe essere.
Poi, in spiaggia, mi supera correndo un bambino. Un sorriso stampato in faccia, si tuffa in mare urlando al papà. In mano, una di quelle maschere da snorkeling che coprono tutto il volto. Una di quelle maschere utilizzate come respiratore quando i caschi CPAP erano introvabili. Il bimbo la indossa orgoglioso, mette la faccia sotto acqua per vedere sabbia e sassi. Torna su, non per prendere fiato. Con quella maschera l’ossigeno non è un problema. Dice che ci sono anche pesci. Il papà gli urla un bravo.
Mi sono bloccata a fissarli. La mente corre ai giorni drammatici di marzo, quando l’Italia ha raggiunto il picco dei contagi. Quando dietro quelle maschere c’erano occhi disperati, in lotta per un po’ d’aria. Sono passati poco più di 100 giorni. Abbiamo la memoria così corta?
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