In occasione del World Brain Day, la Società Italiana di Neurologia diffonde i risultati di uno studio americano su inquinamento atmosferico e cervello ragazzi e offre un confronto tra il cervello di Biden e Trump
L’esposizione agli inquinanti dell’aria, alle polveri sottili e in particolare al PM 2,5, provoca un’alterazione delle connessioni cerebrali, con conseguenti disturbi dell’attenzione e problemi mentali. A dimostralo uno studio scientifico americano della Wayne State University e del Cincinnati Children’s Hospital, condotto su 10mila giovani americani di età compresa fra 9 e 12 anni, i cui dati erano custoditi nel database ABCD (Nationwide Adolescent Brain Cognitive Development). Oggi, a pochi giorni dal World Brain Day, che si celebra il 22 luglio, è la Società Italiana di Neurologia (Sin) a richiamare l’attenzione sulla relazione tra inquinamento atmosferico e sviluppo delle attività cognitive.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Brain Connectivity da un gruppo di neurologi, psichiatri, epidemiologi ambientali e biostatistici, indica che l’esposizione in un’età in cui si stanno sviluppando le principali connessioni cerebrali è particolarmente pericolosa. Peraltro, al danno da PM 2,5 responsabile anche di problemi respiratori come l’asma o nel sonno, che ne viene conseguentemente disturbato, si associa pure quello degli inquinanti presenti nel cibo e nell’acqua. Viene da chiedersi a questo punto se e quale influenza possa avere tutto questo nelle persone più anziane o più fragili, soprattutto laddove affette da altre malattie o altre comorbidità. Questo appare oggi più che mai di interesse, anche alla luce delle attuali attenzioni dedicate alle condizioni dei due rivali per la contesa della Casa Bianca.
Secondo l’Air Quality Index (AQI) americano, la concentrazione di PM2.5 nell’aria a New York, città di nascita di Trump, è compresa fra 35 e 85, mentre a Scranton, città di nascita di Biden, è pari a 11,6. “Non possiamo sapere quanto fosse ottant’anni fa, quando Biden e Trump erano bambini, ma è probabile che le proporzioni fra le due città fossero simili alle attuali e cioè che il piccolo Trump abbia respirato molto più PM 2,5 di Biden – dicono gli esperti della Sin -. Ovviamente non ci si può basare su un unico dato che sarà ancora da confermare meglio con ulteriori studi e occorre, soprattutto, considerare che la salute del cervello è legata a molteplici fattori”. Tuttavia, a proposito delle insinuazioni di decadimento sorte a carico di Biden dopo il famoso confronto televisivo con Trump, diverse sono state le ipotesi formulate seppure ad oggi non vi sono evidenze a supporto di una malattia cerebrale degenerativa.
Sull’argomento, il Presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) Prof. Alessandro Padovani dell’Università di Brescia, dichiara che “occorre essere cauti e che alcune lacune non sempre sono determinate da una malattia che porta a demenza. Si deve tener conto che Biden, a parte una balbuzie manifesta fin dalla giovanissima età, ha avuto una emorragia cerebrale nel 1988 per una rottura di aneurisma dalla quale si è completamente ripreso e che da tempo lamenta, oltre che una fibrillazione atriale, una patologia respiratoria per la quale necessita di un supporto notturno. Il disturbo dell’andatura è conseguente ad una polineuropatia sensitivo motoria e ad una spondiloartrosi, condizioni frequenti e in parte legate all’età. Le note cliniche escludono, invece, altre condizioni critiche e non vi sono elementi a favore di malattie degenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Quello che occorre sottolineare è che a parte alcune eccezioni, con l’invecchiamento il nostro corpo va incontro a modifiche in tutti gli organi, e non c’è dubbio che il cervello è un organo delicato e vulnerabile. Alcune difficoltà cognitive possono essere conseguenti a disturbi del sonno, oppure ad eventuali trattamenti farmacologici, oppure a condizioni di stress. Certo, non sappiamo molto relativamente ad eventuali esami e sappiamo che in più del 30% degli ultraottantenni vi possono essere nel cervello alterazioni vascolari così come alterazioni neuronali dovute a quelli che chiamiamo processi abiotrofici”, aggiunge il professore.
Tra queste alterazioni, negli ultimi anni è diventata oggetto di studio una condizione età-dipendente che chiamiamo LATE (Limbic-predominant age-related TDP-43 encephalopathy). “In verità – continua il Presidente della Sin – questa entità non ha una causa specifica e risente di fattori diversi, così come succede per la pelle oppure per la vista oppure ancora per l’udito. Si sa che le aree limbiche sono particolarmente sensibili e che nei neuroni di queste aree si accumula una proteina chiamata TDP-43 che interviene nelle condizioni di stress neuronale. I sintomi sono in larga parte confinati nei meccanismi di memoria, soprattutto di acquisizione di nuove informazioni. Il problema della LATE è stato messo in luce dal NIA, il National Institute for Aging americano ed è oggi alla ricerca di marcatori diagnostici. Di certo, questa condizione differisce dall’Alzheimer. Si può affermare che Biden possa soffrire di questa condizione? Sulla base dei dati a disposizione non vi sono elementi a supporto”.
E cosa possiamo dire di Trump? “A prima vista – continua il professore Padovani – sembrerebbe che sia tutto riconducibile a carattere, temperamento e personalità, sebbene più di un osservatore riporta alcuni lapsus, alcune difficoltà di denominazione e di memoria. Certo Biden e Trump sono diversi dal punto di vista personologico e probabilmente questo condiziona la comunicazione e il loro comportamento. Probabilmente nessuno dei due ha una Malattia di Alzheimer o un’altra malattia neurodegenerativa ed entrambi, pur essendo anziani, paiono piuttosto il manifesto di quanto il cervello sia resistente, resiliente e efficiente anche nelle età avanzate. Entrambi hanno protetto la salute del cervello grazie alla loro forte progettualità che ha continuato ad alimentare il loro scopo di vita, il cosiddetto ‘sense of purpose’ studiato da Angelica Sutin della Florida University che nell’anziano combatte il decadimento intellettivo. L’ostinata determinazione di Biden a proseguire nella corsa alla Casa Bianca e il pugno alzato di Trump dopo l’attentato ne sono il miglior esempio”. In quest’ultimo tale reazione evidenzia anche una forte resilienza che secondo la Sutin ha molti addentellati con il sense of purpose e ciò confermerebbe l’ipotesi diagnostica di Padovani: a febbraio è stato infatti pubblicato su Nature Human Behaviour uno studio su agenti di polizia olandesi secondo cui una forte resilienza al disturbo post-traumatico da stress, come quello che occorre a chi subisce grossi traumi come appunto un attentato, è associato ad un’iperattività della corteccia prefrontale, una delle prime aree cerebrali colpite da demenza. “In altre parole, nella Giornata Mondiale del Cervello, piuttosto che parlare di cosa si perde inevitabilmente con l’età, dovremo tutti, guardando a Biden e Trump, così come in casa nostra negli scorsi anni a Rita Levi Montalcini, Luigi Pertini e Umberto Napolitano, celebrare il grande miracolo del Cervello e della sua capacità di garantirci la forza di raggiungere gli obiettivi e i traguardi che ci prefiggiamo a tutte le età” conclude Padovani.
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