Foschi (SICOB): «Includere obesità nei Lea. Priorità per i vaccini? I pazienti non sono censiti, rischiamo di rallentare tutta la campagna»
In Italia una persona su dieci è obesa. Una persona su dieci si trova, ogni giorno, a fare i conti con una patologia insidiosa, che spesso ne porta altre con sé, ma soprattutto con uno stigma sociale duro a morire, che tende a vedere più una “colpa” che una vera e propria malattia. Il 4 marzo è la Giornata mondiale dedicata all’Obesità e, insieme al dottor Diego Foschi, presidente della SICOB (Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle malattie metaboliche), abbiamo affrontato le questioni più attuali che i pazienti affetti da obesità (ma anche la loro rete assistenziale) si sono trovati ad affrontare nell’ultimo anno.
«L’iniziativa del World Obesity Day, che risale al 2015, nasce dalla presa di coscienza che questa patologia, ormai diffusa non solo nei Paesi industrializzati ma anche in quelli in via di sviluppo, meritasse una maggiore attenzione. Ci sono 800 milioni di obesi nel mondo, di cui 6 milioni in Italia: una persona su dieci. Se poi consideriamo il corollario di patologie che sono collegate all’obesità, come il diabete, l’ipertensione, nefropatia, dislipidemia, e le varie vasculopatie, la questione diventa ancora più drammatica dal punto di vista assistenziale e dei costi sanitari. La forma più incisiva di trattamento parte, senza dubbio, dalla prevenzione, ma tutto il processo di facilitazione delle cure nasce dalla consapevolezza e dal supporto della società intera verso questi pazienti, oltre che dalla rimozione di quei pregiudizi che ancora colpiscono chi soffre di questa patologia. Un altro aspetto fondamentale della questione è la necessità di una presa in carico con un approccio multidisciplinare che coinvolga tutti gli specialisti interessati: endocrinologi, nutrizionisti, psicologi, chirurghi per il trattamento dei casi più complessi».
«Che l’obesità fosse un fattore predisponente alle infezioni è noto da molto tempo, così come il fatto che l’obesità espone a maggiori rischi di complicanze a seguito di infezioni. Nel caso specifico del Covid, è stato dimostrato che i soggetti obesi sono tra le categorie più a rischio, ed infatti l’indice BMI è inserito nell’algoritmo per il calcolo del rischio. Questo ha reso evidente il fatto che le persone affette da obesità presentano una fragilità di fondo, anche senza patologie concomitanti. Ulteriore conferma viene dal fatto che la maggior parte dei giovani morti per Covid erano affetti da obesità. Da un lato, la pandemia è riuscita a riaccendere un faro su una problematica ultimamente trascurata. L’Italia riconosce l’obesità come malattia, ma di fatto non la include nei Livelli essenziali di assistenza. Di conseguenza il paziente obeso viene lasciato molto a se stesso, anche per un retaggio culturale che da un lato tende a sottovalutare, quando invece l’obesità è una vera e propria malattia, e dall’altro a stigmatizzare».
«Per quanto riguarda l’infettività, sappiamo che la proteina spike del coronavirus si lega in particolar modo ai recettori dell’angiotensina, molto presenti nel tessuto adiposo. Per quanto riguarda invece la risposta immunitaria, nei pazienti che hanno già avuto un’evoluzione verso le complicanze incidono sfavorevolmente l’insulino-resistenza e il diabete. Il terzo fattore che entra in gioco è la serie di alterazioni a carico dei diversi organi e apparati in caso di obesità grave. Un esempio lampante: una persona affetta da obesità, che ha l’addome e il torace completamente occupato da tessuto adiposo, ha una funzionalità respiratoria già enormemente ridotta in condizioni normali. In condizioni di patologia polmonare da Covid, la funzionalità respiratoria è praticamente annientata».
«Sicuramente l’isolamento e l’abbandono di un contesto sociale e di relazioni umane ha inciso negativamente sulla cura verso se stessi. Se a questo si somma il venir meno di una continuità assistenziale per questi pazienti (visite ridotte, accessi contingentati, timore di recarsi in strutture sanitarie) è facile comprendere la complessità della situazione. A parte rari casi virtuosi in cui la telemedicina ha sopperito in qualche modo, in generale i tempi nel nostro sistema sanitario non sono ancora maturi, purtroppo, per un’assistenza da remoto soddisfacente».
«Credo che una programmazione in tal senso andasse fatta a monte. Ricordiamoci che la campagna vaccinale, per dare i risultati sperati, deve essere fatta oltre che nel miglior modo possibile, soprattutto nel più breve tempo possibile. Ora dobbiamo considerare un fattore molto significativo: i pazienti obesi nel nostro Paese non sono censiti ufficialmente. Di conseguenza, se inserire questi pazienti tra i destinatari prioritari rischia di portare a un ulteriore rallentamento di tutta la campagna, allora meglio lasciare le cose come stanno e rispettare la programmazione originaria. Perché a fare le spese di un ulteriore rallentamento sarebbe la comunità intera, compresi i pazienti fragili e i pazienti obesi».
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