I ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS) hanno monitorato per 12 anni lo stato di salute di oltre 22 mila persone e lo hanno correlato con le loro abitudini alimentari, prendendo in considerazione sia gli aspetti nutrizionali che quelli legati al grado di trasformazione dei cibi. Il primo autore dello studio: «L’etichetta dovrebbe indicare anche il livello di trasformazione degli alimenti e non solo ingredienti e valori nutrizionali»
“Zero” non vuol dire sano: gli alimenti senza zuccheri né grassi giovano alla nostra linea, ma non sempre fanno bene alla nostra salute. Un recente studio, infatti, ha dimostrato che quanto più un cibo è processato, e quelli “zero” sono non di rado ultra-processati, tanto meno sarà salutare. I ricercatori dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS), per scoprire quale aspetto dell’alimentazione definisca meglio il rischio di mortalità, hanno monitorato per 12 anni lo stato di salute di oltre 22mila persone partecipanti al Progetto epidemiologico Moli-sani e lo hanno correlato con le loro abitudini alimentari, prendendo in considerazione sia gli aspetti nutrizionali che quelli legati al grado di trasformazione dei cibi. Lo studio, condotto in collaborazione con l’Università dell’Insubria di Varese e Como, l’Università di Catania e Mediterranea Cardiocentro di Napoli è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista British Medical Journal.
Si stima che, nel mondo, una morte su cinque sia dovuta ad una scorretta alimentazione, per un totale di 11 milioni di morti ogni anno. «Per definire la salubrità di un alimento non possiamo considerare solo la sua composizione e la qualità nutrizionale, ma è necessario valutare anche il grado di lavorazione a cui è sottoposto – spiega Marialaura Bonaccio, epidemiologa del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli e primo autore dello studio -. Conoscere il grado di lavorazione risulta cruciale per comprendere il reale effetto del cibo sulla salute. I risultati della nostra ricerca, infatti, – continua Bonaccio – confermano che il consumo sia di alimenti di scarsa qualità nutrizionale, che quello di cibi ultra-processati aumenta in modo rilevante il rischio di mortalità, in particolare per le malattie cardiovascolari. Quando però abbiamo tenuto conto congiuntamente sia del contenuto nutrizionale della dieta che del suo grado di lavorazione industriale, è emerso che quest’ultimo aspetto è quello più importante nell’evidenziare il maggiore rischio di mortalità. In realtà, oltre l’80 percento degli alimenti classificati come non salutari dal Nutri-Score sono anche ultra-lavorati. Questo suggerisce che il rischio aumentato di mortalità non è da imputare direttamente (o esclusivamente) alla bassa qualità nutrizionale di alcuni prodotti, bensì al fatto che questi siano anche ultra-lavorati».
Rinnovare ed ampliare l’etichetta dei prodotti è la soluzione proposta dai ricercatori. Già utilizzate da tempo su base volontaria in alcuni Paesi europei, come Francia e Spagna, ora le etichette alimentari sono al vaglio della Commissione Europea che vorrebbe identificare un unico sistema da applicare in tutti gli Stati membri. Il Nutri-Score, sviluppato in Francia, è dato come favorito. Il sistema valuta la qualità nutrizionale di un alimento (ad esempio in base al contenuto di grassi, sale, fibre, etc.), con una scala di cinque colori, che vanno dal verde (cibo più salutare) al rosso e a cui corrispondono le prime cinque lettere dell’alfabeto, A-B-C-D-E. «Tuttavia, se le lettere e i colori del Nutri-Score ci aiutano a confrontare rapidamente prodotti della stessa categoria, permettendoci di scegliere quello migliore dal punto di vista nutrizionale, non ci forniscono però nessuna indicazione sul grado di trasformazione dell’alimento. I nostri dati – dice Bonaccio – indicano che c’è bisogno di considerare non solo le caratteristiche nutrizionali, ma anche il grado di lavorazione dei cibi. Ecco perché pensiamo, anche in sintonia con altri ricercatori internazionali, che bisognerebbe integrare ogni sistema di etichettatura nutrizionale con informazioni riguardanti il livello di trasformazione, utilizzando ad esempio il sistema NOVA».
Il sistema NOVA identifica gli alimenti cosiddetti ultra-processati, ossia quei cibi fatti in parte o interamente con sostanze che non vengono utilizzate abitualmente in cucina (proteine idrolizzate, maltodestrine, grassi idrogenati…) e che contengono generalmente diversi additivi, come coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti. «Bevande zuccherate e gassate, prodotti da forno preconfezionati, creme spalmabili, ma anche prodotti apparentemente insospettabili, come fette biscottate, alcuni cereali per la colazione, cracker e yogurt alla frutta, fino anche ai cibi per l’infanzia sono solo alcuni esempi di cibi ultra-processati», dice la ricercatrice.
In altre parole, in base al sistema NOVA, una fettina di carne sarebbe preferibile a un hamburger vegano, semplicemente perché la prima non ha subito manipolazioni industriali e verosimilmente non contiene additivi alimentari, mentre il secondo è il risultato di un’articolata lavorazione industriale al termine della quale la percentuale di alimento rimasto integro diventa marginale.
Iscriviti alla Newsletter di Sanità Informazione per rimanere sempre aggiornato