La storia di Cayambe, la comunità indigena che si è isolata dal Covid-19. Un coprifuoco di 13 ore al giorno in cui nessuno può entrare o uscire dalla città e punizioni all’antica per chi infrange il regolamento. I morti sono ancora zero
L’Ecuador è uno degli Stati più colpiti dal Covid-19, con l’indice di mortalità per milione di abitanti più alto di qualsiasi altro Paese in America Latina. A questi dati preoccupanti fa eccezione una particolare comunità indigena: quella di Cayambe, su cui ha messo luce Al Jazeera. La lotta al virus per loro è un prosieguo dell’eterna battaglia per la sopravvivenza, fatta di antichi e nuovi metodi che stanno funzionando.
Cayambe è una cittadina situata nella parte settentrionale della regione, nella provincia del Pichincha dominata dall’omonimo vulcano. Per secoli è stato il centro di rifornimento di prodotti agricoli per la vicina Capitale, Quito. Ma rispetto al resto del Paese, sembra rappresentare un mondo a parte. All’ingresso della città oggi si può trovare un cartello intagliato nel legno. “Comunità in quarantena“, si legge.
Ci sono 132 check-point attorno a tutti i possibili punti di ingresso alla città. Qualsiasi mezzo debba entrare viene completamente disinfettato. La comunità indigena controlla gli arrivi e le partenze, sia dei veicoli che delle persone a piedi. Sono pochissimi i soggetti esterni alla comunità ammessi. C’è, inoltre, un coprifuoco rigidissimo tra le 2 di pomeriggio e le 5 di mattina, in cui nessuno può uscire o entrare dalla città. Per qualsiasi necessità bisognerà aspettare l’indomani.
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«Bisogna capire che le comunità indigene hanno una loro filosofia di vita», ha spiegato il sindaco di Cayambe, Guillermo Churuchumbi. «Abbiamo le nostre tradizioni – ha continuato – e il nostro linguaggio. La nostra visione che si lega strettamente all’eterna lotta per un posto in cui vivere e continuare a prosperare. Che oggi dobbiamo preservare dalla pandemia con la stessa forza».
Particolari sono anche le “punizioni” per chi infrange il coprifuoco o si comporta irresponsabilmente. Quella che gli abitanti di Cayambe chiamano «la giustizia indigena». Da 8 a 16 ore di lavori socialmente utili, di qualsiasi genere. Dalla pulizia delle strade, a quella delle stalle e dei bagni pubblici. Una specie di “epifania morale”, che porta i colpevoli a sentirsi imbarazzati di fronte alla comunità tutta. Spesso anche la polizia affida dei piccoli criminali alla squadra di sicurezza cittadina, per la stessa punizione.
I risultati sono sbalorditivi. Nella comunità di Cayambe, che conta 120 mila persone, non c’è stato nemmeno un morto per coronavirus. Un unicum nel Paese dal primato più terribile in Sud America: quello del tasso di decessi. Tuttavia, se Cayambe non sta soffrendo le difficoltà sanitarie della pandemia, sta certamente affrontando quelle economiche.
L’esportazione e il commercio di rose sono la fonte remunerativa più quotata nella zona. L’80% della comunità indigena vive con quei guadagni. Con il lockdown praticamente contemporaneo in tutte le zone del mondo, tuttavia, i loro prodotti non sono stati richiesti e per buona parte sono andati sprecati. Sono ancora molto pochi i carichi ripartiti con i prodotti dei roseti di Cayambe.
«Ma la nostra vita profuma ancora di rose, finché vinciamo il virus», dicono gli abitanti della città.
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