I giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America vogliono abrogare il diritto all’aborto nel Paese, secondo un documento interno pubblicato da Politico. Il mondo scientifico si ribella a fronte di una decisione dettata da ragioni di carattere politico-ideologico e tutto questo sulla pelle delle donne
I giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America vogliono abrogare il diritto all’aborto nel Paese, secondo un documento interno pubblicato da Politico. Il documento è stato redatto a febbraio da Samuel Alito, uno dei giudici conservatori nominati dal Partito Repubblicano , il quale ritiene che la Corte suprema dovrebbe annullare la legge del 1973 che garantisce questo diritto nei 50 Stati del Paese.
Se la nuova proposta verrà approvata, ogni Stato statunitense potrà decidere se legalizzare o vietare l’aborto a seconda dell’ideologia del governo regionale. Il divieto di aborto pregiudicherebbe i diritti riproduttivi di milioni di donne, che dovrebbero recarsi in altri stati per abortire, oltre a dover affrontare discriminazioni e accuse da parte di associazioni e attivisti pro-vita. La Corte Suprema degli Stati Uniti è il tribunale giudiziario con la massima autorità: decide sui ricorsi nei casi giudicati in gradi inferiori e ha l’ultima parola in queste materie. La decisione finale sui diritti all’aborto potrebbe essere resa pubblica alla fine di giugno o all’inizio di luglio prossimi.
Attualmente, questo tribunale ha una maggioranza conservatrice: 6 dei suoi 9 membri hanno posizioni tradizionali su questioni come l’aborto, la famiglia, la comunità omosessuale, l’immigrazione o i diritti delle donne. In questo senso, molti temono che questa maggioranza possa sospendere un diritto fondamentale in vigore da mezzo secolo. La legge sull’aborto negli Stati Uniti è stata approvata nel 1973 in seguito al caso Roe v. Wade.
Norma McCorvey era una donna del Texas che rimase incinta del suo terzo figlio nel 1969 e voleva abortire, ma in questo stato era illegale farlo. Gli avvocati di McCorvey (che hanno usato lo pseudonimo “Jane Roe” per preservare il suo anonimato) hanno intentato una causa contro il procuratore del Texas Henry Wade, sostenendo che le leggi antiaborto dello stato erano incostituzionali perché violavano il diritto alla privacy. Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema, che ha finito per pronunciarsi a favore di McCorvey. Questa sentenza ha stabilito un precedente legale in tutto il Paese. Da un lato, ha riconosciuto la libertà delle donne di decidere sul proprio corpo, una libertà protetta dalla Costituzione degli Stati Uniti. Dall’altro, ha stabilito che i governi regionali non potevano revocare tale diritto.
La decisione ha provocato un grande dibattito sociale. Difensori dei diritti delle donne e gran parte della comunità medica si sono confrontati con associazioni per il diritto alla vita e oppositori dell’aborto. Questa divisione si riflette ancora tra gli stati democratici e repubblicani. Sebbene il diritto all’aborto sia protetto dalla legge in tutto il paese, alcuni stati del sud più conservatori hanno sfidato la legge federale e approvato leggi regionali per vietarlo. Lo stato dell’Alabama, ad esempio, ha approvato nel 2019 la legge antiaborto più restrittiva degli Stati Uniti: vieta l’interruzione della gravidanza in quasi tutti i casi, anche in caso di stupro, e condanne fino a 99 anni di reclusione per i professionisti medici che eseguono questa procedura. L’aborto è consentito solo se la vita della madre è in pericolo.
Alla fine del 2021, lo Stato del Mississippi ha chiesto formalmente alla Corte Suprema di ribaltare il precedente Roe v. Wade in modo che questa sentenza non possa essere utilizzata per difendere legalmente il diritto all’aborto. Il Governo regionale vuole vietare l’aborto dopo 15 settimane di gestazione. La sentenza al centro della decisione della Corte conosciuta come “Roe v. Wade” venne pronunciata dalla Corte il 22 gennaio del 1973 e rese legale a livello federale il diritto all’aborto per la donna come libera scelta personale. Prima del 1973, ogni stato aveva una propria legislazione in materia, e in almeno trenta l’aborto era considerato reato di common law, basato sui precedenti giurisprudenziali più che sui codici.
Sul tema si è espressa sulla rivista scientifica Nature, la ricercatrice dell’Università della California Diana Greene Foster specializzata in salute riproduttiva, che ha puntualmente ricordato nel suo contributo “La scienza deve dire la sua sull’aborto” come le decisioni assunte su questo tema, non hanno quasi mai basi scientifiche ma solo motivazioni di carattere politico-ideologico e tutto questo sulla pelle delle donne. «Gli aborti praticati al di fuori del sistema sanitario causano una morte su otto in gravidanza e queste si concentrano nei Paesi più poveri, dove di solito l’interruzione è illegale. Non è possibile vietare l’aborto, è solo possibile vietare un aborto sicuro, perché quando questa opzione è inaccessibile le donne si affidano a metodi rischiosi».
La dottoressa Greene Foster ha condotto uno studio, il Turnaway Study, nel quale sono state prese in esame mille donne negli Stati Uniti per 5 anni dopo che avevano cercato di avere un aborto. «Abbiamo riscontrato una serie di conseguenze sulla salute, inclusa la morte, nelle donne che hanno comunque dovuto proseguire la gravidanza e partorire. Le mamme e i loro figli (anche quelli successivi) erano più a rischio di incontrare serie difficoltà economiche nei casi in cui l’aborto era stato negato. Queste donne erano anche più a rischio di essere abusate dai loro partner, avevano meno possibilità di avere successivamente una gravidanza voluta e di coronare le loro aspirazioni».
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