Sviluppato da Maria Elena Bottazzi, di origine italiana, Corbevax costa meno di due dollari ed è stato creato in modo “tradizionale”, pensato per i Paesi più poveri. Il dottor Agnoletto (No profit on pandemic) fa un’analisi di quello che Ue e Usa non stanno facendo per mettere fine alla pandemia
Mentre il mondo aspetta il mese di marzo con ansia, data in cui la farmaceutica Pfizer ha promesso di rilasciare un vaccino “tagliato” su Omicron, una notizia potenzialmente essenziale è passata sotto silenzio. A Houston una microbiologa italo-honduregna, Maria Elena Bottazzi, co-direttrice del Centro per lo sviluppo dei vaccini del Texas Children’s Hospital e Baylor College of Medicine, ha contribuito a creare “il vaccino anti-Covid per il mondo”. Si tratta di Corbevax, un vaccino sviluppato con tecniche “tradizionali”, simile a quello che utilizziamo contro l’epatite B, che arriva senza brevetti e a costo estremamente ridotto. Pensato per fornire un aiuto concreto ai Paesi che in questo momento dipendono interamente dalla “beneficienza” dell’Occidente, che molto spesso fa arrivare vaccini troppo prossimi alla scadenza.
Perché dunque così poca pubblicità a questo vaccino, e possiamo aspettarci di vederlo in Italia? Lo abbiamo chiesto al dottor Vittorio Agnoletto, medico e docente a contratto di Globalizzazione e Politiche della Salute Università di Milano, coordinatore della campagna europea “No profit on pandemic“. Corbevax sta sta aspettando l’ok definitivo dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ma si sono già presi accordi per la produzione in India, Indonesia, Sudafrica e Botswana. Senza brevetti il costo di produzione è inferiore ai due dollari e alla portata di tutti.
«La dottoressa Bottazzi ha confermato – spiega Agnoletto – che loro presenteranno i documenti ad EMA e FDA, ma abbiamo un problema: la necessità di avere un partner in Europa e USA che produca questo vaccino. Loro dicono che sia efficace su tutte le varianti e nelle prossime settimane avranno risultati anche su Omicron. Perché non ci sono aziende che corrono in cerca di una partnership? La risposta è che non c’è interesse per il business. La domanda che io mi pongo è: ci stiamo muovendo in un mercato chiuso che deve essere controllato per forza dalle aziende di Big Pharma? Qualora non ci sia un’azienda partner che decida di produrlo e la produzione avvenga per esempio in India, l’Ema darà l’autorizzazione a importante e usare un vaccino non prodotto in Ue o USA?».
Sin dall’inizio della pandemia esperti e scienziati hanno tenuto a ricordare che senza una distribuzione equa di vaccini e cure, uscire dall’emergenza si sarebbe rivelato molto complesso. Il principio è ormai noto a tutti: dove Covid-19 si diffonde senza barriere, produce varianti e queste ultime hanno sempre più alte possibilità di sfuggire ai vaccini costruiti sul “prototipo iniziale” del virus. L’ondata di Omicron, che percorre il mondo intero, lo sta dimostrando.
Per arrivare anche nei paesi con meno mezzi, però, si deve operare un trasferimento di conoscenze e tecnologie, non solo di prodotti. A questo punta Corbevax. «Trasferire le conoscenze tecnologiche attraverso un rapporto biunivoco – spiega Agnoletto – andando loro in alcune situazioni e in altre, con la loro struttura aperta medici ricercatori e studenti senza esclusione possono venire a conoscere le tecnologie che hanno usato e sviluppato. Mi risulta che abbiano già accordi per produrre 100 milioni in più di dosi al mese in India».
Il coordinatore di “No profit on pandemic” delinea una parte di mondo abbandonata a sé stessa e l’altra «totalmente dipendente da Big Pharma da cui dovrà periodicamente acquistare vaccini, tramite aziende che si muoveranno in logica oligopolistica, con due o tre che potranno determinare il mercato in tutti i sensi. Il costo ma anche il tipo di vaccino: siamo così certi che Pfizer e Moderna non continueranno a usare il vaccino vecchio piuttosto che creare quello adatto ad omicron perché hanno dei fondi di magazzino da esaurire?», è la sua provocazione.
Intanto da Unione europea e Stati Uniti l’approccio verso il Sud del mondo è ancora lo stesso: donazioni di vaccini, in surplus o scartati dagli stati donatori. Di qualche tempo fa la storia dei campioni di AstraZeneca, pronti per essere inviati ma ancora fermi e a rischio di scadere. Mentre a inizio anno un’inchiesta dell’Osservatore Romano ha portato alla luce nuovamente donazioni troppo vicine alla scadenza che i paesi riceventi, Africa e Asia principalmente, sono costretti a rifiutare per l’impossibilità di metterli in uso prima della scadenza, viste le difficoltà organizzative e tecnologiche.
«Non è un caso isolato – continua Agnoletto – la storia degli ultimi anni è piena di donazioni che le grandi aziende fanno di farmaci al Sud del mondo quando sono prossimi alla scadenza per vari motivi. Perché in quel modo ottengono degli sgravi fiscali, facendo risultare tutte queste donazioni e non hanno il problema dello smaltimento, che scaricano sui paesi più poveri. Una prassi che si è riprodotta con i vaccini. I paesi riceventi devono avere i tempi necessari per gestire la distribuzione e la logistica dei vaccini, non avendo gli stessi vantaggi di quelli occidentali».
Il dottore suggerisce anche la possibilità dell’esistenza di accordi vincolanti tra aziende farmaceutiche e Unione europea «che prevedono che un paese non possa donare vaccini acquistati da un’azienda di Big Pharma senza l’autorizzazione». «In ogni caso – prosegue – una frase di don Luigi Ciotti dice che la carità e l’elemosina non possono mai sostituire il diritto, solo aggiungersi e potenziarlo. Bisogna rendere disponibile il diritto. L’Ue continua a presentare questa strategia delle donazioni come alternativa alla moratoria sui brevetti e i kit diagnostici, moratoria temporanea per 3 anni proposta per velocizzare la fine della pandemia».
Ad Agnoletto abbiamo chiesto quali sono i prossimi passi per gestire l’emergenza in maniera più avveduta di quanto accaduto finora, anche guardando alle prossime pandemie. «Siccome è molto probabile che nel prossimo futuro ci saranno nuove pandemie dovremmo porci il problema di arrivare a una grande azienda farmaceutica pubblica a dimensione europea. Un’azienda pubblica fa tre cose fondamentali: non costruisce profitto e può tenere i prezzi più bassi, si occupa delle malattie dimenticate, orienta anche la ricerca. Questi vaccini ad mRna quando sono stati presentati avevano come endpoint la capacità di bloccare il passaggio dall’infezione alla malattia, non erano stati testati sulla capacità di bloccare la trasmissione del virus. Un’azienda pubblica avrebbe messo questo come punto iniziale», è il primo punto del coordinatore di “No profit on pandemic”.
Il secondo riguarda una comunicazione più corretta e trasparente. Nel primo caso, specie sul vaccino, Agnoletto ricorda i tanti errori fatti: in primis assicurare che la trasmissione del virus sarebbe stata evitata con il vaccino, affermazione che poi ha fornito tanto spazio alla polemica no vax quando è stato dimostrato che non era corretta. «Io non credo – aggiunge – che sia opportuno limitare i dati di informazione che vengono distribuiti, che bisognerebbe dare in modo più serio: è vero che non tutti i positivi entrano per questioni legate al Covid e poi alcuni si scopre che sono positivi in ospedale. Bisogna dare questi dati che forniscono un punto di partenza per i ricercatori indipendenti, anche per individuare problemi e studiare nuove soluzioni».
E sulla trasparenza? «Sarebbe corretto – conclude – che i vari ricercatori e le istituzioni che vanno in televisione dichiarassero i conflitti d’interesse. La trasparenza è essenziale. In Italia il peso di Big Pharma è molto grande, sia nel mondo politico che nella comunicazione».
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