Intervista alla coordinatrice della divisione medica della ONG Michela Paschetto: «Le misure di contenimento sociale affaticano la quotidianità di paesi già fragili»
«Un’epidemia di questo tipo ha messo in ginocchio sistemi sanitari molto più forti di quelli africani: non c’è da stupirsi che abbia causato difficoltà in Africa. Più interessante forse è il dire che il lockdown e le misure di contenimento globale in uno scenario già così difficile hanno creato e continuano a creare molti problemi: penso alla difficoltà che queste persone devono affrontare in paesi dove il lavoro informale rappresenta la norma». È con Michela Paschetto, coordinatrice della divisione medica di Emergency, che facciamo il punto sullo scenario africano durante e dopo i giorni dell’epidemia da coronavirus. Un teatro che, sono le informazioni dell’OMS a descriverlo così, ha visto un impatto meno evidente ma comunque preoccupante della pandemia da Sars-CoV-2.
«I numeri del contagio – spiega Paschetto – sono per ora più bassi che in altri continenti, ma ci troviamo di fronte a un quadro molto eterogeneo che cambia molto da paese a paese ed è estremamente correlato alla capacità di testare e identificare i pazienti sospetti. Parlare di Africa significa dire tutto e non dire niente, è un approccio che non consente di fare analisi corrette: ad esempio, paesi come il Sudafrica e l’Uganda hanno sistemi sanitari mediamente sviluppati; mentre altri, come ad esempio il Sudan che sta vivendo un periodo di instabilità politica ed economica, e con un sistema sanitario più strutturato nelle grandi città ma molto fragile nelle zone rurali, presenteranno maggiori difficoltà nella risposta all’emergenza. Normale che in questi scenari – continua l’incaricata della ONG – i dati a disposizione non siano del tutto rappresentativi della realtà sul territorio».
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La presenza di Emergency nel continente è ormai un dato ultradecennale, con un ospedale di chirurgia d’emergenza in Sierra Leone, cliniche pediatriche in varie zone del Sudan fra cui alcuni servizi di cui solo la pandemia da Covid è riuscita a ritardare l’apertura. Sempre in Sudan, nella capitale Khartoum, c’è il centro di cardiochirurgia che è la testa di ponte di Emergency in Africa, una presenza autorevole e riconosciuta che attrae pazienti ed estende il suo bacino d’utenza anche verso gli stati confinanti: «Rimanere così tanto tempo all’interno di uno stato e lavorare lì a stretto contatto con la popolazione e con il sistema sanitario locale crea un positivo clima di cooperazione – spiega Paschetto – e siamo particolarmente contenti di poter fungere da centro di specializzazione post-laurea per i medici sudanesi». Dall’osservatorio di Emergency dunque, e ancora una volta con rilevanti differenze fra paese e paese, è giusto dire che i governi e i sistemi sanitari africani hanno lavorato molto sulla prevenzione e sull’informazione di questo fenomeno epidemico, aiutati anche dal fatto che da loro il Covid-19 è arrivato con più ritardo.
Oggi, grazie al superamento di lunghi periodi di instabilità dovuti a conflitti, alcuni paesi africani hanno ottenuto un notevole miglioramento nella condizione sanitaria generale. Il rischio reale dell’epidemia da coronavirus nello scenario africano appare quindi quello di andare a sovraccaricare in maniera molto pesante le fragili strutture sanitarie e minare i progressi ottenuti negli anni: «Se a livello globale stiamo vedendo una riduzione della capacità di cura delle patologie ordinarie e di risposta alle emergenze mediche quotidiane, come un incidente stradale o un parto complicato, questa diminuita capacità di intervento ha un impatto amplificato su paesi in cui l’accesso ai servizi è ancora difficoltoso. Parliamo di un continente che convive da anni con emergenze sanitarie fra cui l’Ebola, il Colera e la malaria, e per questo è importante che la crisi innescata dal coronavirus non oscuri i bisogni di salute della popolazione».
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