Sanità 11 Maggio 2023 17:49

Cosa manca alla ricerca sul contrasto alla disinformazione

Esitazione vaccinale, diffusione della disinformazione sulla salute attraverso i social media e infodemia sono al centro delle preoccupazioni dell’OMS e di molti governi in giro per il mondo. Ricercatori a tutti i livelli studiano e documentano da tempo questi fenomeni. Ma uno dei più autorevoli e citati tra questi studiosi, Sander van der Linden, del […]

Cosa manca alla ricerca sul contrasto alla disinformazione

Esitazione vaccinale, diffusione della disinformazione sulla salute attraverso i social media e infodemia sono al centro delle preoccupazioni dell’OMS e di molti governi in giro per il mondo. Ricercatori a tutti i livelli studiano e documentano da tempo questi fenomeni. Ma uno dei più autorevoli e citati tra questi studiosi, Sander van der Linden, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Cambridge, ora lancia un allarme: “Dobbiamo capire cosa funziona e cosa non funziona. Gli interventi del mondo reale sui social i media sono pochi ed episodici. Gli studi controllati randomizzati sui social network non hanno un gold standard. E tutto questo solleva importanti questioni etiche e determina disuguaglianze nell’accesso e nella copertura dei dati al di fuori del nord del mondo”.

Nel suo editoriale pubblicato sul British Medical Journal (BMJ) il 5 maggio van der Linden spiega che studiosi e ricercatori hanno “una ovvia differenza rispetto agli studi clinici tradizionali perché sui social media non hanno pieno accesso alla piattaforma, ai suoi aspetti procedurali e ai dati grezzi necessari per trarre conclusioni valide e complete sull’esito dello studio”. È difficile, inoltre, avere riscontri chiari sulla “esposizione” al trattamento (ovvero, quali utenti vedono il trattamento e per quanto tempo), che potrebbero essere influenzati dagli algoritmi delle società di social media. Tutti dati che le compagnie concedono con grandi limitazioni. “Di conseguenza, i dati esistenti forniscono un’istantanea limitata e distorta della popolazione più ampia” denuncia van der Linden.

Ma nell’articolo vengono messi in evidenza anche altri problemi: quelli etici, ad esempio. “Sui social media non è sempre possibile ottenere il consenso scritto e informato delle persone perché gli interventi vengono forniti tramite campagne pubblicitarie o inseriti direttamente nel feed di un utente; quindi, non c’è contatto diretto con i soggetti esposti”. E qui van der Linden suggerisce che “una proposta potrebbe essere quella di prendere in prestito linee guida da protocolli consolidati in medicina sul trattamento dei dati sensibili”.

Poi c’è la grande lacuna relativa al luogo e alla cultura che vengono studiate. “Revisioni sistematiche hanno indicato che quasi tutte le ricerche sul nesso tra social media, disinformazione ed esitazione sui vaccini provengono dal nord globale, o da ciò che gli psicologi spesso definiscono popolazioni occidentali, istruite, industrializzate, ricche, democratiche (WEIRD – western, educated, industrialised, rich, democratic) – spiega van der Linden –. Di conseguenza, c’è una grave mancanza di comprensione del sud del mondo. Dati i diversi driver sociali e culturali della suscettibilità alla disinformazione e dell’esitazione ai vaccini, questa è una lacuna importante nella letteratura. Come possono essere condotti e replicati studi randomizzati in altri Paesi? Le società di social media spesso offrono meno supporto alla ricerca per studiosi e professionisti che non parlano inglese. Inoltre, esistono forti asimmetrie, in cui solo alcune istituzioni hanno accesso ai dati o alle piattaforme dei social media. Ad esempio, i miei colleghi ed io siamo stati in grado di condurre un grande esperimento randomizzato sulla piattaforma YouTube per consentire alle persone di individuare la manipolazione (Sanità Informazione ne ha parlato qui), ma ciò è stato possibile principalmente grazie a una collaborazione esistente con Google. La maggior parte dei ricercatori non ha collaborazioni così attive con società di social media; quindi, dobbiamo democratizzare e diversificare il processo attraverso il quale i ricercatori possono ottenere dati e collaborazione dalle società di social media”.

Insomma, conclude lo psicologo di Cambridge: “Gli scienziati hanno studiato meticolosamente come contrastare la disinformazione sui social media per molti anni, ma ora devono affrontare numerose sfide. Ciò di cui abbiamo bisogno è un gold standard su come condurre ricerche per contrastare la disinformazione e l’esitazione del vaccino sui social media in tutto il mondo”.

 

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