Stipendi più alti, maggiore attenzione al merito, assenza di contenziosi legali grazie ad una migliore comunicazione tra medici e pazienti. Davide Conti è in Nuova Zelanda da nove anni e non ha alcuna intenzione di tornare in Italia. Ha anzi creato un gruppo su Facebook per dare ai 38mila iscritti che intendono fuggire come lui tutte le informazioni di cui possono aver bisogno
La maggior parte dei messaggi postati si conclude con “Buona fuga”. C’è chi cerca tirocini, chi chiede informazioni per il visto, chi vuole sapere quanto guadagna un medico nel resto del mondo; chi mette a disposizione guide complete per la specializzazione in un determinato Paese, chi vuole partire per l’Erasmus, chi chiarisce come fare per il riconoscimento della laurea, chi elenca i documenti necessari per il trasferimento. C’è chi, addirittura, vuole delucidazioni sul migliore conto corrente da aprire. È una comunità di oltre 38mila persone, quella riunita nel gruppo Facebook “Doctors in Fuga”. Più degli abitanti di Aosta, Nuoro o Riccione. Tanti sono i medici italiani, o gli studenti di medicina, che cercano di fuggire dal nostro Paese. Nei giorni in cui imperversano le notizie sui tanti medici che si trasferiscono all’estero, per capire perché e da cosa fuggono abbiamo parlato con il fondatore del gruppo, Davide Conti.
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Rientra a pieno titolo nella categoria dei medici già scappati. Appena conseguita la laurea a Messina, è andato in Irlanda. Dopo tre anni, il grande salto: la Nuova Zelanda, dove è arrivato «un po’ per caso». In realtà voleva andare in Australia, dove però c’erano più ostacoli amministrativi per poter lavorare. «Ho ottenuto subito un contratto per sei mesi, poi per un anno, per tre anni, e alla fine sono rimasto», ci racconta per telefono. Ormai sono nove anni che vive laggiù, lavora come anestesista e gli è stata anche data la cittadinanza neozelandese.
I vari trasferimenti non sono stati semplici: «Capire come ottenere la documentazione necessaria in Italia e poi come poter accedere ad un sistema sanitario straniero è più complicato di quanto si possa pensare. Prima di trasferirmi in Irlanda, sono andato a Dublino per avere informazioni, e sono tornato a casa a mani vuote. Quindi una volta che sono riuscito ad entrare nel sistema ricevevo in continuazione messaggi da amici e conoscenti che volevano partire e mi chiedevano aiuto. Le domande e le procedure erano sempre le stesse, allora ho creato questo gruppo su Facebook, archiviando e condividendo le informazioni che avevo. Dopo una settimana, si erano iscritte già più di cento persone. Man mano questo archivio si è espanso, gli iscritti sono aumentati, ognuno mette a disposizione quello che sa».
Ci si aiuta a vicenda, insomma, sfruttando al meglio le potenzialità dei social network. E quello che fa impressione, scorrendo velocemente la home page del gruppo, è il grado di partecipazione: ogni post riceve decine di commenti e like. «Non so quanti iscritti al gruppo poi si siano effettivamente trasferiti all’estero – continua Davide – ma sicuramente negli ultimi cinque anni il numero di espatriati è aumentato esponenzialmente».
«Le domande più gettonate riguardano le difficoltà di accesso alla specializzazione e lo stipendio. E questo la dice lunga sulle preoccupazioni dei più giovani – commenta -. Non condividono il fatto che entrare nelle scuole di specializzazione sia così complicato. Ritengono poi che gli stipendi in Italia non siano adeguati al livello professionale e al carico di lavoro e di responsabilità richiesti». E in fatto di stipendi, all’estero è tutta un’altra storia: «Quando frequentavo il primo anno di specializzazione in Irlanda, lavoravo 80 ore a settimana, ma guadagnavo in media 4mila euro netti al mese, che poi aumentano con l’anzianità».
Non è solo l’aspettativa di guadagnare di più, però, ad aver spinto Davide a partire: «Non sono mai stato entusiasta del sistema accademico italiano, in cui secondo me regnano nepotismo e assenza di meritocrazia – ci racconta -. All’inizio pensavo fosse solo un problema del Sud, ma poi confrontandomi con universitari di tutta Italia ho capito che è un problema generale. È quindi maturato in me il desiderio di andarmene. Sono andato all’estero, e anche se non ero nessuno e non conoscevo nessuno, mi venivano date le stesse opportunità di tutti gli altri, e ho capito che qui conta quanto vali, e non chi ti supporta o aiuta».
Ma a spaventare molti giovani camici bianchi, ci sono anche i tanti contenziosi medico-legali, che in altre parti del mondo vengono affrontati e risolti lontano dai tribunali: «In Italia – prosegue Davide – il medico non ha un supporto professionale. Per ogni minimo errore si va immediatamente in causa. Qui in Nuova Zelanda, invece, in caso di errore medico non si arriva direttamente in tribunale: prima si analizza l’evento internamente, insieme ad un team medico-legale che lavora per l’ospedale e coinvolgendo il paziente e i suoi parenti; si cerca quindi di capire la successione di eventi che ha portato all’incidente, si fa capire ai familiari quanto accaduto e si fa in modo che l’errore non si ripeta in futuro. Sono pochissimi gli incidenti medici che arrivano in tribunale, anche perché è stato dimostrato che il contenzioso ingigantisce il problema. Qui il fulcro del sistema risolutivo è nella comunicazione efficace tra le parti interessate. E sono convinto che introdurre una struttura organizzata di questo tipo anche in Italia potrebbe servire a non far fuggire tanti medici», commenta Davide Conti.
Completamente integrato nella cultura e nello stile di vita neozelandese, «molto più rilassato e meno attento alle formalità e alle gerarchie ospedaliere rispetto a quelli italiani», Davide è irremovibile quando gli chiediamo se tornerebbe in Italia: «No grazie. Sto bene qui. Posso pensare a qualche giorno di vacanza in Italia, potrei valutare di trasferirmi in un altro Paese europeo, ma in Italia proprio no».