Dalle scuole ai trasporti, dai grandi eventi al contact tracing, uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista fa il punto sulle misure “non farmacologiche” di contrasto al nuovo coronavirus adottate in 131 Paesi
«Le nostre risultanze dimostrano che, presa come singola misura non farmacologica, la chiusura dei grandi eventi pubblici ha avuto il maggior ruolo nella riduzione di R». Così il Lancet in un dettagliato studio che, secondo gli autori, sarebbe «il primo a considerare l’associazione temporale fra l’attivazione/disattivazione di una serie di misure non farmacologiche di contrasto al coronavirus e la trasmissione del virus, così come misurata dall’indice R per tutti i Paesi in cui questi dati sono a disposizione».
Si tratta di un lavoro invero possente, costruito su dati empirici di 131 Paesi e che ha analizzato una serie di notissime misure predisposte dagli Stati, fra cui «la chiusura delle scuole, dei luoghi di lavoro, lo stop agli eventi pubblici, la richiesta di rimanere in casa, lo stop agli spostamenti interni». Ognuno di questi interventi ha, infatti, un diverso impatto sulla rottura delle catene di contagio e soprattutto un diverso impatto rispetto al tempo in cui viene attivato.
Come dicevamo, i ricercatori guidati da You Li, dottore di ricerca all’Università di Edimburgo, hanno mappato analiticamente tutti gli interventi disposti dai policymakers nei Paesi alle prese con la pandemia da coronavirus. «La nostra analisi suggerisce che, nel contesto di una recrudescenza del SARS–CoV-2, la strategia di controllo dello stop agli eventi pubblici e dei raduni pubblici di più di dieci persone sarebbe associata ad una riduzione di R del 6% per giorno 7, del 13% su giorno 14 e del 29% su giorno 28; se questa strategia includesse anche la chiusura dei luoghi di lavoro, la riduzione globale di R sarebbe dl 16% nel giorno 7, del 22% sul giorno 14 e del 38% sul giorno 28. Dati che forniscono ulteriori evidenze che possono informare decisori e policymakers riguardo tempi e modi per l’introduzione di misure di contenimento sociale».
Ovviamente, una volta dislocate tali misure, l’effetto non è immediato, ma cresce nel tempo a scaglioni di 7 giorni, con i primi effetti osservabili su giorno 7, i successivi su giorno 14 e ulteriori su giorno 28; il che, secondo i ricercatori, è un altro aspetto che va tenuto a mente quando si progetta un’azione di salute pubblica che coinvolge misure non farmacologiche: la piena efficacia si raggiunge non dopo i celebri 14 giorni, ma potrebbe esserci bisogno di qualcosina in più.
Capitolo a parte è quello della scuola, la chiusura della quale è una misura «universalmente riconosciuta per il controllo di pandemie anche precedenti». Il ruolo degli studenti nella trasmissione del coronavirus «è ancora da chiarire» ma gli studi a disposizione dimostrerebbero che «la chiusura delle scuole potrebbe ridurre l’incidenza di un picco fra il 40 e il 60% e ritardare l’epidemia da Covid-19».
Ma la realtà è che una mappatura corretta dell’impatto di una chiusura delle scuole è complicata da una serie di fattori da non poco conto: «Conta il distanziamento sociale nelle classi e fuori dalle classi, contano le misure aumentate di igiene e il controllo della temperatura all’arrivo (…). Non è stato possibile inoltre valutare l’effetto della riapertura di diversi livelli scolastici (scuole elementari contro scuole medie). Uno studio ha inoltre sostenuto che i bambini sotto i cinque anni con sintomi medi o moderati di Covid-19 hanno cariche virali più alte, e quindi potrebbero fungere da superdiffusori nella popolazione generale».
Vi sono poi un paio di osservazioni che potrebbero apparire sorprendenti: la prima, il sistema di contact tracing ha un ruolo efficace nell’arginare l’epidemia da Sars-COV-2 solo se viene effettuato in maniera «tempestiva», altrimenti un sistema di tamponamento e tracciamento disorganizzato e malamente operativo non è in alcun modo in grado di essere d’aiuto. La seconda: come confermato in altri studi, «la chiusura del sistema di trasporto non mostra sostanziali effetti nella caduta del fattore R».
Un’ultima evidenza proposta dallo studio: anche l’indice R è un dato statistico utile, ma che va correttamente inserito nel suo contesto. «La stima dell’indice R mentre c’è una pandemia in corso è complessa e associata ad un tasso ineludibile di incertezza. Secondo, la stima di R diviene inaffidabile, con alti tassi di incertezza, se il numero di casi è basso, e questo ne riduce l’applicabilità a livello locale o quando il numero di casi in una regione grande è basso. Terzo, R può diventare sensibile a un picco in alcuni contesti (case di cura, scuole, fabbriche e ospedali) e non rappresenta completamente la trasmissione nella popolazione generale. Quarto, R è un indice di trasmissione medio a livello di popolazione e quindi non riflette il livello individuale di trasmissione del SARS-CoV-2».
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