«Mi sono iscritto a medicina perché ero attirato dalla sua aura di eroismo, dalla possibilità di intervenire per risolvere un problema pericoloso. È stata la sala operatoria, ovviamente, a catturarmi. È lì, del resto, che vengono salvate le vite». Atul Gawande, chirurgo statunitense e Professore alla Harvard Medical School, ricorda così l’inizio della sua carriera […]
«Mi sono iscritto a medicina perché ero attirato dalla sua aura di eroismo, dalla possibilità di intervenire per risolvere un problema pericoloso. È stata la sala operatoria, ovviamente, a catturarmi. È lì, del resto, che vengono salvate le vite». Atul Gawande, chirurgo statunitense e Professore alla Harvard Medical School, ricorda così l’inizio della sua carriera in un articolo sul New Yorker, pubblicato in italiano da Internazionale.
«Chirurgia significa intervenire in un momento critico della vita di una persona, con un risultato chiaro, calcolabile e spesso risolutivo. In confronto – prosegue -, la medicina generale sembrava vaga e incerta. Quante vittorie potrai veramente ottenere ricordando ai tuoi pazienti di prendere le loro medicine, ma solo meno della metà di loro ti ascolta? Di perdere peso quando solo una piccola percentuale ci riesce? Di smettere di fumare? Di risolvere i problemi con l’alcol? Di presentarsi per la visita annuale, che in ogni caso non sembrava servire a molto? Volevo fare un lavoro che contasse veramente. Ho fatto il chirurgo».
Ma una serie di storie di pazienti e di medici di base hanno fatto cambiare idea sulla medicina al dottor Gawande. Il succo del suo lungo articolo, in fondo, è probabilmente riassumibile in una delle frasi del chirurgo: «Il successo non coincide con una vittoria momentanea ed episodica, anche se questa ha certamente un ruolo importante. È lo sviluppo a lungo termine di passaggi graduali che produce un progresso duraturo». Ed è questo il segreto del successo della medicina generale.
Ci sono degli studi che dimostrano che i Paesi con più medici di base hanno tassi di mortalità più bassi, incluse la mortalità infantile e quella dovuta a condizioni specifiche come malattie cardiache o ictus. Altri hanno scoperto che coloro che si affidano abitualmente al proprio medico di base hanno un tasso di mortalità più basso di cinque anni rispetto agli altri. Nel Regno Unito, dove i medici di famiglia vengono pagati per lavorare nelle zone più povere, l’incremento del 10% della medicina generale ha migliorato la salute della popolazione in un modo tale che anche se si aggiungessero dieci anni alla vita dei cittadini, gli effettivi benefici ottenuti non verrebbero equiparati. Un’altra ricerca ancora ha esaminato le riforme sanitarie spagnole che hanno rinforzato l’assistenza primaria (costruendo nuove cliniche, aumentando gli orari di lavoro, pagando le visite domiciliari): dopo 10 anni, nelle regioni che avevano varato queste riforme il tasso di mortalità è crollato, ed è diminuito ancora di più dove queste novità erano stato introdotte prima. Insomma, la medicina generale fa bene alla salute delle persone. Forse anche più, a lungo termine, di un chirurgo. Perché? Per il rapporto che si instaura tra il medico e il paziente.
Gawande l’ha capito quando si è accorto che i medici di base chiamavano i propri pazienti per nome, ne conoscevano non solo la storia clinica ma anche gli stili di vita, la dieta, con quali malattie avevano familiarità – perché magari hanno curato anche i loro genitori, i fratelli o i figli. Il medico di famiglia sa del mal di schiena di tre mesi fa e dell’influenza particolarmente aggressiva della scorsa primavera. È proprio il rapporto che si istaura con il medico ad essere la chiave di volta che spinge il paziente a rivolgersi al proprio medico di base non appena lamenta qualche sintomo potenzialmente pericoloso. Ed è stato documentato che basta questo per dare un contributo significativo alla diminuzione dei tassi di mortalità.
‘Il medico che ti salva la vita’ è il titolo che ha scelto Internazionale per la copertina del numero con l’articolo del dottor Gawande. Eppure la società non identifica i medici di medicina generale come coloro che salvano vite: «D’altro canto – è l’esempio riportato da Gawande – nonostante sia ben noto che la manutenzione dei ponti sia molto più conveniente, continuiamo a utilizzare fondi per pagare la costruzione di nuovi ponti. Il motivo è ovvio. Una costruzione assicura un successo immediatamente ben visibile; la manutenzione no. Per caso c’è un politico che è stato premiato perché non è crollato un ponte?».
La prima cosa che fanno i familiari di un malato quando il chirurgo esce dalla sala operatoria annunciando che l’intervento è riuscito è ringraziarlo senza sosta. Gli ha salvato la vita, non c’è dubbio. Ma chi è che si è accorto della patologia? Che ha riscontrato dei valori strani nelle analisi del sangue? Che ha convinto il paziente a farsi visitare da uno specialista?
Nel prossimo futuro la causa principale di morte sarà l’ipertensione non controllata, che può svilupparsi in ictus, infarti o demenza. Il 30% degli americani soffre di pressione alta, ma solo la metà di questi viene curata in modo adeguato. Nel mondo la situazione è anche peggiore: un miliardo di persone con ipertensione, e il 14% curato adeguatamente. «Una cura adeguata per l’ipertensione è come la manutenzione del ponte – spiega Gawande -: necessita di un monitoraggio continuo e graduale e richiede aggiustamenti specifici con il trascorrere del tempo, ma evita disastri costosi. Eppure, i chirurghi dispongono di risorse, riconoscimenti e personale infiniti. Un medico di base ha difficoltà anche ad assumere un infermiere o ad investire in tecnologie avanzate che consentono di controllare i livelli di pressione dei propri pazienti ipertesi».
E i prossimi anni saranno anche peggiori: «Nell’era in cui abbiamo informazioni su tutto, sarà evidente – prevede Gawande – che la vita di tutti è una condizione preesistente che attende di realizzarsi. Prima o poi scopriremo tutti di avere una malattia cardiaca, o un tumore, o una qualche forma di depressione, o una malattia rara che deve essere scoperta e curata. E questo sarà un problema per i nostri sistemi sanitari, che non riconoscono valore alle cure che danno risultati in tempi lunghi. Ma è anche un’opportunità. Abbiamo la possibilità di trasformare il corso delle nostre vite».