ESCLUSIVA | La dottoressa Danielle Ofri dell’ospedale Bellevue di New York è l’autrice dell’editoriale sullo sfruttamento dei medici e dei professionisti sanitari che, tradotto da Sanità Informazione, è stato condiviso da oltre 50mila persone. Le abbiamo chiesto tre consigli e perché, secondo lei, i problemi di chi lavora nella sanità statunitense sono così simili a quelli che affrontano i medici italiani…
In pochi giorni, l’articolo dal titolo indicativo “La sanità si basa sullo sfruttamento infinito e gratuito di medici e professionisti sanitari” è stato condiviso su Facebook da oltre 50mila persone. È sufficiente scrivere nella stessa frase questo titolo e questo numero per comprendere quanto il concetto di “sfruttamento” sia (letteralmente) condiviso dai professionisti del mondo della sanità italiana. Ma la cosa più interessante, e forse curiosa, è che in realtà l’articolo non è altro che una traduzione di un editoriale pubblicato dal New York Times a firma di Danielle Ofri, una dottoressa dell’ospedale Bellevue della Grande Mela e autrice del libro “Cosa dice il malato, Cosa sente il medico”.
Il sistema sanitario italiano e quello statunitense non potrebbero essere più diversi. Diversi i percorsi formativi, diversi i finanziamenti, diverse le strutture, diverso il rapporto tra pubblico e privato, diverso il ruolo giocato dalle assicurazioni. Eppure, il racconto della vita di un medico o di un professionista sanitario d’Oltreoceano, tra turni massacranti, carenza di personale, eccesso di burocrazia e aumento di carichi di lavoro cui non corrisponde l’aumento dei compensi, è così simile a quello di un medico o di un professionista sanitario italiano che 50mila camici bianchi, verdi e blu vi si rispecchiano. E utilizzano quella storia per raccontare ad amici e conoscenti la propria, di vita.
È lì che sta andando, globalmente, la professione del medico? È a questo che punta la sanità di tutto il mondo? All’aumento continuo delle mansioni, dei compiti e delle responsabilità affidate a medici e professionisti sanitari? Lo abbiamo chiesto direttamente a Danielle Ofri, l’autrice dell’articolo del New York Times, illustrandole il fenomeno cui abbiamo assistito in questi giorni sulle pagine del nostro giornale.
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Dottoressa, come mai i problemi di chi lavora in sanità in Italia, negli Stati Uniti e in chissà quanti altri Paesi al mondo, sono così simili?
«La maggior parte di noi medici e professionisti sanitari, di qualunque nazionalità siamo, ama il proprio lavoro e vi si dedica completamente. Fa tutto quello che è necessario fare per terminarlo al meglio. Se il lavoro amministrativo aumenta, facciamo quello che è necessario fare per completarlo, anche se richiede molto più tempo. È la nostra coscienza che ci impedisce di sottrarci al nostro dovere. Però ad un certo punto questa dedizione diventa sfruttamento della professionalità dei medici e degli operatori».
Cosa può fare, allora, ogni singolo professionista per evitare che si arrivi a questo punto?
«Parlare chiaro. Spesso i nostri superiori non hanno idea di cosa accada nei reparti o negli studi medici. Ogni volta che ci viene chiesto qualcosa di ridicolo o inutile, vale la pena mandare una e-mail al proprio supervisore. Non per lamentarsi o sbraitare contro la struttura, ma per evidenziare in che modo quella richiesta avrà delle conseguenze negative sulla sicurezza dei pazienti. È questo che colpisce sempre l’attenzione di chi comanda, che leggerà quelle poche righe come un segnale di responsabilità, e non di protesta».
Qual è la sensazione peggiore causata, a livello professionale e personale, dai carichi di lavoro eccessivi che le vengono richiesti?
«La peggiore è sicuramente sapere di avere la sala d’attesa piena di pazienti e dover ridurre il tempo che dedico ad ognuno di loro. Ma se si vuole lavorare bene, non si dovrebbe sentire la pressione dell’orologio che corre. Tra le ricadute che questo lavoro causa sulla mia vita personale, odio non poter cenare con i miei figli perché devo lavorare fino a tardi per completare ogni mansione».
Tra le cause del burnout, ci sono anche i pazienti particolarmente ansiosi, che contattano spesso il proprio medico?
«In parte, anche se la maggior parte dei pazienti non è così. Alcuni, tuttavia, mandano continuamente e-mail ai propri medici ponendo milioni di domande che richiederebbero una visita medica per ricevere risposte adeguate».
Molti Paesi stanno affrontando una carenza di medici e professionisti sanitari che sta lentamente svuotando interi reparti ed ospedali. È un fenomeno che si sta verificando anche negli Stati Uniti?
«Negli USA la carenza di personale riguarda soprattutto le piccole città. È molto difficile assumere medici nelle aree rurali, dove quindi numerosi ospedali stanno chiudendo».
Ma come mai la carenza di personale sanitario è un problema globale?
«Per affrontare questo problema, gli Stati Uniti, ad esempio, stanno chiamando medici stranieri. Nel loro Paese di origine, quindi, i medici saranno insufficienti. È un effetto Domino».
Quindi non è il calo della vocazione, l’origine del problema.
«Assolutamente no. Per fortuna, sono ancora tantissimi gli studenti che vogliono iscriversi a Medicina. La verità è che quella del medico è una professione incredibile. Io amo quello che faccio, e non lo cambierei per niente al mondo. E questa sensazione è condivisa da molti di noi. È un vero privilegio poter aiutare gli altri avendo a disposizione gli strumenti necessari per farlo. E ci sono ancora tanti studenti che lo capiscono».
Il suo libro affronta un altro tema all’ordine del giorno: quello della corretta comunicazione tra medici e pazienti.
«Il mio libro affronta la sfida della comunicazione tra medici e pazienti e il modo in cui una comunicazione scorretta può avere degli effetti negativi sulla salute. Il bello è che non è difficile migliorare in questo campo. Sono concetti complessi da riassumere in poche righe ma, per fortuna, il libro è stato tradotto anche in italiano».