Il notista politico della testata on line: «Un pasticcio. La parola magica, per capire l’impatto della riforma su ambiti cruciali come sanità e tutela della salute è “ricentralizzazione”. Le Regioni restano dei grandi centri di spesa ma vengono svuotate di contenuti»
Per capire il “pasticcio”, ovvero l’impatto della riforma sulla Sanità, oggi in capo alle Regioni, occorre partire da Palazzo Madama. Perché il Senato, presentato nella riforma come il Senato delle autonomie, di potere sulle autonomie ne ha poco. Anche se sarà formato da consiglieri regionali e sindaci che, una volta varcata la soglia, beneficeranno dell’immunità parlamentare. Il che non è un dettaglio, considerato che le Regioni – principali “centri” di spesa pubblica – sono state in questi anni anche i principali “centri” di scandali e inchieste. Proprio l’attuale “carica dei 102” (tanti sono gli indagati nelle attuali Regioni) nominerà i nuovi senatori senza alcun criterio vincolante: le modalità di elezione dei nuovi Senatori saranno stabilite in un futuro incerto e affidate a leggi regionali. Tradotto: fino al 2023 ci saranno Senatori nominati dagli attuali consigli. I Senatori delle autonomie si occuperanno poco delle autonomie e del loro governo, nel senso di regole e potere sulla capacità di spesa. Ugo De Siervo, ex presidente della Corte Costituzionale, spiega: «Appare davvero strano che il nuovo Senato si debba occupare di politica comunitaria ma non di come si suddividono i poteri e i finanziamenti tra Stato e Regioni».
La parola magica, per capire l’impatto della riforma su ambiti cruciali come sanità e tutela della salute, è “ricentralizzazione” rispetto alla costituzione odierna. Oggi, lo Stato ha solo la competenza sulla “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sull’intero territorio nazionale” (2° comma, art. 117 Cost.), oltre alla fissazione dei principi fondamentali della materia sulla “tutela della salute” (3° comma, art. 117 Cost.), mentre tutto quanto attiene all’organizzazione sanitaria rientra nelle competenze regionali. La riforma cambia radicalmente questa impostazione. Elimina la competenza concorrente, ritenuta fonte di contenzioso tra Stato e Regioni, e centralizza in capo allo Stato tutte le materie di competenza concorrente, compresa la “tutela della salute”, settore nel quale il legislatore nazionale sarà sovrano. Un’impostazione frutto anche del mutato clima politico, passato in un decennio dalla moda federalista, ai tempi della Padania di Bossi, a quella centralista (anche Salvini ora tenta la via di una Lega nazionale).
Per parecchi costituzionalisti, questa centralizzazione avverrebbe in maniera eccessiva. Sostiene De Siervo: «Mentre finora le Regioni manterrebbero alcuni loro spazi legislativi ed organizzativi, ora le disposizioni generali e comuni potrebbero limitare pienamente i poteri delle regioni in materia e addirittura far rinascere una forte burocrazia statale. Poi, e qui siamo davvero al paradosso, questa ricentralizzazione non si applicherebbe alle regioni a Statuto speciale, che vengono spesso identificate come quelle più discutibili». Detta in modo grezzo, Emilia e Lombardia vengono trattate come grandi province e peggio che la Sicilia e la Sardegna, i cui sistemi sanitari sono notoriamente più carenti. Ricapitolando. I consiglieri regionali, elevati a rango di Senatori del Senato delle autonomie, non hanno poteri sulle autonomie. Al tempo stesso, queste restano dei grandi centri di spesa, con le loro burocrazie e i loro costosi contenitori, ma vengono svuotate di contenuti. Un po’ come le Province e un po’ come il Senato. Per togliere potere reale alle Regioni, l’alternativa sarebbe stata accorparle in macro-aree, ma presumibilmente il processo avrebbe alimentato resistenze dei ceti politici e dei loro apparati. Si è scelta un’altra via, che porta ad ingrossare il livello burocratico statale.
Questo intervento è tratto dalla testata Consulcesi News, n. 1, Anno 3° Ottobre 2016