Lavenia (Di.Te.) su omicidio Civitanova Marche: «Il telefonino anestetizza la realtà, congela la paura e “controlla” l’emozione. È davvero preoccupante che nessuno abbia sentito il bisogno di aiutare il povero uomo»
Prima l’uccisione di Alika Ogorchukwu, poi una violenta lite tra due uomini: tutto è accaduto a distanza di poche ore e nella stessa strada, in Corso Umberto I a Civitanova Marche. In entrambi i casi chi ha assistito alla scena ha preferito accendere la fotocamera del proprio smartphone per immortalare le violenze – la prima talmente brutale da sfociare in un omicidio – piuttosto che tentare di salvare chi tra i litiganti stava avendo la peggio.
È certamente lecito aver paura di provare a fermare un uomo che, in preda ad una sorta di raptus, colpisce un altro uomo con una stampella fino a lasciarlo esanime. Così come è altrettanto comprensibile avere paura di buttarsi tra due persone che, seppur a mani nude, se ne stanno dando di santa ragione. Ma se il timore che ci spinge a non intervenire è quello di poter rimanere feriti, se non addirittura di poter ricevere un colpo letale, non si dovrebbe temere ugualmente la reazione dell’aggressore in questione che nello scoprirci a filmare le sue “gesta” potrebbe reagire con la medesima brutalità?
Per l’Associazione Nazionale su GAP, Cyberbullismo e patologie generate dal Web (Di.Te.) «la scelta di documentare un’aggressione deve sì indignare, ma anche farci riflettere sull’uso che costantemente facciamo dello smartphone. Prendere in mano il telefonino e iniziare una ripresa video, in alcuni casi anche in diretta sui social, è diventato normale. Ma è giusto quando si vuole denunciare un’ingiustizia o una violenza. Diventa aberrante quando si sceglie di filmare l’agonia e la morte di un uomo, chiudendo gli occhi e il cuore sulla sofferenza di una persona».
A poche ore dalle violenze consumatesi a Civitanova Marche non sono mancate le polemiche e, soprattutto, le critiche nei confronti degli inerti spettatori che, anziché chiamare la Polizia, o ancor meglio provare a bloccare l’omicida, avrebbero scelto di essere pubblico indifferente. «È urgente una riflessione di tutti – commenta Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te. -. È del tutto evidente che siamo arrivati a un livello di regressione generale. Il telefonino è diventato uno strumento non solo per condividere, ma soprattutto per anestetizzare la realtà, congelare la paura e “controllare” l’emozione».
Lo smartphone e i social sono utili mezzi quando creano azione e relazione. Per l’Associazione Nazionale su GAP, Cyberbullismo e patologie generate dal Web «diventano strumenti di morte quando smettiamo di essere empatici e non riusciamo a metterci nei panni dell’altro, anche se l’altro è un africano, povero e spesso guardato con fastidio. Chi salva un uomo, ha già salvato il mondo e ha salvato anche sé stesso». Scegliere di stare a guardare e non provare a fermare il massacro di un uomo è tanto triste quanto tragico. «È davvero preoccupante che nessuno abbia sentito il bisogno di aiutare il povero uomo – dice Lavenia -. Il pensiero dominante diventa sempre di più: “Lo vivo solo se lo condivido”. Un inganno – conclude lo psicoterapeuta – tanto evidente, quanto tragico e debordante».
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