INFODEMIC LAB | Negli ultimi giorni sono diventate notizie di cronaca l’allarme dell’OMS e di altre agenzie per i casi di influenza aviaria riscontrati nei mammiferi in Gran Bretagna e Spagna e il focolaio di virus di Marburg in Guinea Equatoriale. Lo straordinario libro di David Quammen “Senza respiro” (edizioni Adelphi) ci fa capire quanto siano legate attività umane, ambiente, mondo animale e virus…
Il Covid-19 ce l’ha insegnato e si spera che la lezione sia rimasta ben impressa in tutti noi e, soprattutto, in chi prende le decisioni per la collettività: tutelare l’ambiente, gestire in modo migliore le nostre attività e l’impatto che hanno sul mondo animale e vegetale è essenziale per ridurre la possibilità che si sviluppino nuove pandemie.
Sappiamo che la memoria tende ad oscurare i brutti ricordi e non saremmo sorpresi di vedere l’ennesima ripetizione dello schema illustrato già da Lucrezio a proposito della peste di Atene: alla sottovalutazione iniziale è subentrata la ricerca di un capro espiatorio, poi il panico, e infine l’impulso, altrettanto irrazionale, alla rimozione.
Ma conoscere le implicazioni del legame tra uomo e natura, indagare i punti di equilibrio che ci devono essere tra virus e animali e comprendere questa responsabilità è un dovere sempre più pressante. Ad illuminare in modo straordinariamente efficace questi percorsi ci pensa ancora una volta David Quammen nel suo libro “Senza respiro” (edizioni Adelphi). Una inchiesta “vecchio stile” e un contributo fondamentale anche contro disinformazione e infodemia.
Lasciamo da parte l’avvincente narrazione delle origini e della diffusione del Sars-CoV-2 al centro del volume. Negli ultimi giorni sono diventate notizie di cronaca l’allarme dell’OMS e di altre agenzie per i casi di influenza aviaria riscontrati nei mammiferi in Gran Bretagna e Spagna e il focolaio di virus di Marburg in Guinea Equatoriale.
Ed è il racconto rocambolesco che fa Quammen di quest’ultimo virus che ci aiuta a comprendere quanto il nostro mondo sia interconnesso.
“Questo virus fece la sua prima comparsa ufficiale nell’agosto del 1967, quando tre operatori di laboratorio nelle città di Marburgo e Francoforte, in Germania, e di Belgrado, in Jugoslavia (l’attuale Serbia), presero in consegna alcune scimmie africane inviate vive dall’Uganda per essere impiegate nella ricerca medica. Quasi contemporaneamente, nelle tre località, scoppiò un’epidemia di una terribile febbre emorragica non identificata. A Marburgo si ammalarono ventitré persone, per lo più operai di una fabbrica farmaceutica che avevano maneggiato tessuti appartenenti alle scimmie, e cinque di loro morirono. A Francoforte si ebbero sei casi e due decessi. A Belgrado si contagiò un veterinario di un istituto di ricerca sui vaccini, seguito dalla moglie, che si era presa cura di lui mentre era ammalato. Sopravvissero entrambi. Tutte le scimmie provenivano dallo stesso esportatore in Uganda, dove erano state catturate sulle isole del lago Vittoria. Dai tessuti e dal sangue di alcuni pazienti di Marburgo e alcuni di Francoforte fu isolato un nuovo virus. La città di Marburgo, che aveva registrato il maggior numero di casi, ebbe l’«onore» di dare il nome al virus Marburg. Quelle epidemie si protrassero per alcuni mesi fino all’autunno del 1967. L’identificazione di un ospite serbatoio del virus – non erano le scimmie africane, che erano solo intermediari – richiese molto più tempo. Passarono quarant’anni.
[…] Nel 1980 ci fu un caso in Kenya, probabilmente associato a una visita in una certa grotta sul monte Elgon, dove trovavano ricovero alcuni pipistrelli […].
L’ospite serbatoio del virus rimaneva sconosciuto, ma i pipistrelli erano nella lista dei sospetti. E c’erano anche grotte e miniere, perché era in luoghi come quelli o nelle loro vicinanze che sembravano verificarsi le infezioni da Marburg“.
Il racconto, forse sarebbe meglio dire l’avventura, va avanti tra diversi paesi africani e miniere d’oro, fenditure, grotte pullulanti di ragni, zecche, scarafaggi, letali cobra della foresta e giganteschi pitoni che i ricercatori hanno il piacere di incontrare nelle loro esplorazioni sotterranee alla ricerca di campioni.
“Le gallerie della miniera erano calde e umide, gli occhiali si appannavano, l’acqua stagnante era scura e non si capiva quanto fosse profonda, il soffitto era basso e alcuni dei punti di restringimento tra una cavità e l’altra erano molto angusti” raccontano a Quammen gli scienziati che alla fine di quelle estenuanti ricerche ottennero un risultato sensazionale: “Avevano isolato il virus vivo da cinque pipistrelli. L’ospite serbatoio – o comunque, un ospite serbatoio – del virus Marburg era stato trovato. Grazie a Towner, Amman, Swanepoel e colleghi, si poteva affermare con certezza che i focolai di Kitaka e Durba, come probabilmente i casi legati alla grotta sul monte Elgon, e forse anche il virus delle scimmie africane spedite in Europa nel 1967, provenivano dai rossetti egiziani. Per scoprirlo ci erano voluti solo quarantuno anni” conclude Quammen.
E anche questa, come tante altre ricerche del genere, ci fanno capire quanto riserbo e quanto rispetto ci dovrebbe essere tra il mondo e le attività umane e gli ambienti naturali e animali. Invadere quegli spazi alla ricerca di un ennesimo filone d’oro ha delle conseguenze di cui non possiamo non tenere conto.
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