L’ex Ministro della Sanità consiglia a Giulia Grillo di ripartire dagli investimenti: «Gli ultimi per la sanità risalgono ai governi dell’Ulivo, ma un settore come questo non si governa senza investimenti in tecnologia, edilizia o formazione». E sui fondi integrativi aggiunge: «Sono il vero cavallo di Troia che sta mettendo a rischio l’universalismo del SSN»
«Se in tutta Italia si fossero seguiti i sacri canoni della riforma che introdusse l’intramoenia, forse avremmo potuto rispondere ad esigenze di ieri ma soprattutto di oggi». Interviene così Rosy Bindi, Ministro della Sanità dal 1996 al 2000, sul dibattito degli ultimi giorni che vede l’attuale titolare del dicastero Giulia Grillo in guerra aperta contro le liste d’attesa, proponendo anche un intervento sulla libera professione dei medici. E fu proprio la Bindi ad introdurre l’intramoenia in Italia, anche se «fui sostituita da Ministro proprio nel momento in cui fu firmato e approvato il contratto che la finanziava», precisa. Ne rivendica la maternità, quindi, ma di certo non la gestione, lasciata agli «apprendisti stregoni dei vari modelli organizzativi in giro per l’Italia».
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Senza usare mezzi termini, Rosy Bindi spiega ai nostri microfoni che «l’intramoenia era un modo per affrontare le liste d’attesa e spostare la soddisfazione del paziente dalle cliniche private alle strutture pubbliche, regolamentando il professionista, le tariffe, le entrate fiscali ed ovviamente le liste d’attesa, tant’è vero che si prevedeva che nessun professionista avrebbe potuto sviluppare volumi di attività intramoenia se non si faceva carico di abbattere le liste di attesa. E infatti dove queste indicazioni sono state seguite le cose non sono così inique come altrove. Ora si vuole intervenire sull’intramoenia, ma ogni giudizio dipende da che tipo di intervento si voglia fare».
Ed è proprio al Ministro Grillo che si rivolge quando ricorda i principi alla base della legge 833/78 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale: «“La salute è un diritto dei cittadini e la si tutela non in base al reddito ma in base al bisogno”. Se il Ministro ha intenzione di rilanciare e riaffermare questo principio, deve far fare a questo governo una scelta politica seria, individuando i molto punti critici del SSN ed affrontandoli per risolverli». A partire dai finanziamenti, «che sono diminuiti, perché è vero che la percentuale rispetto al PIL è la stessa, ma visto che è diminuito il PIL sono meno anche le risorse», e dagli investimenti: «Gli ultimi grandi investimenti per la sanità risalgono ai governi dell’Ulivo. Poi non ce ne sono stati più, ma un settore come questo non si governa senza investimenti in tecnologia, edilizia o formazione».
Sempre restando in tema di finanziamento, un altro nodo che secondo Rosy Bindi andrebbe affrontato urgentemente è il governo dei fondi integrativi, «il vero cavallo di Troia che sta mettendo a rischio l’universalismo del sistema, perché di fatto sta diventando il secondo pilastro di finanziamento che ha costi altissimi per il bilancio pubblico. Avrebbero dovuto rafforzare la sanità pubblica e non indebolirla come sta avvenendo adesso, cosa che spiega l’interesse verso la sanità di investitori, industriali o assicurazioni. Non dimentichiamo – prosegue l’ex Ministro – che la sanità è il luogo con maggior potere e maggior denaro pubblico, preso d’assalto anche dalla corruzione e dai poteri criminali, che guarda caso si insediano proprio attraverso i varchi che sono stati lasciati aperti dal non governo del sistema: regole mancanti di accreditamento nazionali, incapacità di esercitare un potere di orientamento vero nei confronti delle università, esternalizzazione dei servizi».
Alla vigilia del quarantesimo compleanno del SSN, quindi, per Rosy Bindi «ci sono più ombre che luci, perché negli ultimi anni non è stata fatta una scelta chiara e netta verso il servizio sanitario nazionale: si è solo cercato di gestire l’esistente e di intervenire su elementi non fondamentali». E tra i capi d’accusa c’è anche l’introduzione del federalismo che «il servizio sanitario non aveva gli strumenti per governare. In questi anni nelle Regioni si sono tentati tutti i modelli organizzativi possibili e immaginabili, ignorando il principio per cui tra le finalità di un sistema e i modelli organizzativi deve esserci coerenza. Non è un caso, infatti, che i sistemi regionali che reggono meglio sono quelli più “ortodossi” mentre dove si sono fatte le sperimentazioni più originali, dall’azienda unica alla deportazione dei direttori generali dalla Lombardia alla Calabria, i sistemi sono meno sostenibili sia per i cittadini che da un punto di vista finanziario».
«Se il Ministro non affronterà questi nodi – conclude la Bindi – il sistema deperirà, senza che i cittadini abbiano potuto esprimersi ma subendone naturalmente le conseguenze. E sarebbe proprio questa, secondo me, la cosa più grave».