La psichiatra: «Sovraccarico di lavoro, senso di colpa e trauma per le tante morti. Così la salute mentale del personale sanitario è a rischio, servono interventi»
Sono passati esattamente due anni da quando intervistammo lo psichiatra Thierry Javelot della clinica Le Gouz. Una struttura sanitaria che era appena nata in Borgogna, in Francia, per assistere i medici e i professionisti sanitari affetti da burnout. Nessuno avrebbe potuto immaginare che da lì a pochi mesi gli operatori sanitari di tutto il mondo si sarebbero trovati di fronte ad un evento che li avrebbe sottoposti ad uno stress con pochi precedenti nella storia della categoria.
Secondo uno studio condotto dall’associazione EMDR Italia, più del 60% dei sanitari ha riportato livelli da moderati a elevati di esaurimento emotivo ed il 36,7% ha riportato sintomi di stress post-traumatico. Pensare alla salute mentale di chi lavora in sanità (e non solo) è l’appello che si è alzato da più parti negli ultimi mesi. E in che modo, allora, la clinica Le Gouz sta facendo i conti con tutto questo?
«Il nostro carico di lavoro è aumentato la scorsa estate e si è impennato nuovamente da gennaio in poi – racconta la psichiatra della clinica Agnès Oelsner a Sanità Informazione –. Abbiamo avuto diversi casi di burnout legati al Covid. Sono soprattutto operatori sanitari che lavorano con anziani e persone non autosufficienti e infermieri, particolarmente colpiti dalle tante morti cui hanno assistito nell’ultimo anno, sfiancati dalla carenza di personale e dai turni massacranti resi necessari dalle assenze dei tanti colleghi contagiati».
«Abbiamo avuto medici di pronto soccorso e personale dei servizi di emergenza e post-emergenza – continua la dottoressa -, oberati di lavoro sin da prima della pandemia, che ha ulteriormente complicato le cose. L’afflusso di pazienti è aumentato, non esistono più permessi o ferie, non è raro parlare con colleghi che iniziano a lavorare alle 6 del mattino e finiscono dopo mezzanotte. Sono esausti. E anche i medici di famiglia dallo scorso autunno sono stati sopraffatti dalla seconda ondata».
È stata quindi la seconda ondata ad aver colpito molto di più i professionisti sanitari: «Durante la prima – aggiunge il dottor Javelot – il sostegno sociale ha giocato un ruolo molto positivo, dagli applausi sul balcone alle promesse del mondo politico; elementi che hanno ulteriormente contribuito ad accentuare la delusione della seconda ondata. Al senso di colpa di non essere stati all’altezza del compito – prosegue – si è aggiunta la sensazione di essere stati ancora una volta ingannati».
Al sovraccarico di lavoro, quindi, si aggiunge il senso di colpa: «Molti temono di non aver svolto correttamente il proprio lavoro, di aver trascurato la relazione con il paziente per affrontare altri compiti lì per lì ritenuti più urgenti. Il numero di morti dichiarati ogni giorno ha traumatizzato tutto il personale, e quando la curva dei contagi scende e la situazione sembra poter tornare alla normalità, chi lavora in ospedale viene assalito dalla paura che i numeri possano tornare a salire e che si debba quindi ricominciare a lavorare nelle stesse condizioni di prima».
Ed è in questo scenario che iniziano a comparire i primi sintomi legati allo stress: «Disturbi del sonno importanti, ansia, agitazione, irritabilità, progressiva incapacità di non pensare al lavoro, che stanno sempre più sfociando in comportamenti di dipendenza o automedicazione».
In questi casi non c’è una ricetta da prescrivere che possa valere per tutti: «Ogni soggetto ha la sua storia, e ogni trattamento deve essere studiato e pensato su misura». Se tutto questo lascerà degli strascichi sulla psiche dei professionisti è troppo presto per dirlo: «Stiamo iniziando a studiare adesso dei possibili scenari – conclude Javelot – ma questa crisi lascerà delle tracce su tutti gli esseri umani».
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