La reazione al Covid-19 delle tribù degli indiani d’America, il sistema sanitario delle riserve indigene e la sintesi fra medicina tradizionale e le moderne strutture sanitarie: intervista al dottor Ryan Close
«Siamo una generazione che si è innamorata della tecnologia, ma niente sostituisce l’approccio personale in medicina. Poter ascoltare, poter guardare e sentire, l’interazione umana è fondamentale per una corretta valutazione clinica: è un pilastro per fornire le migliori cure possibili». Ryan Close è un epidemiologo e lavora in Arizona, negli Stati Uniti d’America, dove è uno dei responsabili del tracing team dell’ospedale indiano di Whiteriver. La sua giornata è interamente dedicata al servizio delle tribù degli Apache White Mountain, per gli spagnoli Apache della Sierra Blanca: oltre 20mila nativi americani che vivono nella celebre riserva di Fort Apache.
Su Sanità Informazione abbiamo già avuto modo di raccontare come abbia impattato il coronavirus in un mondo che per noi è esotico, se non mitico. E il trattamento dell’epidemia da Covid-19 nella riserva indiana continua a riservare più di un aspetto interessante, se è vero che le comunità di nativi americani sono, da un lato, fra i gruppi sociali a più stretta dinamica comunitaria al mondo e, dall’altro, ci spiega il dottor Close contattato su Skype per un’intervista, i casi registrati nelle tribù sono ben al di sotto sia della media americana sia del dato dello stato dell’Arizona.
«Fortunatamente il governo delle tribù in Arizona ha alcuni spazi importanti di sovranità e così alla fine di giugno le autorità indiane hanno deliberato il lockdown. Fra gli Apache i contagi stavano salendo e ora c’è stato un brusco declino. Mi pare una bella testimonianza del lavoro che la tribù ha saputo fare», racconta Close.
«Abbiamo avuto tempo per prepararci – ci spiega il dottor Close -. Siamo state fra le ultime comunità ad imbatterci nel Covid-19; siamo stati nelle condizioni di preparare la comunità, di adattare le nostre pratiche; abbiamo spostato medici e aree intere dell’ospedale per allestire un centro anticoronavirus. Abbiamo allestito un team di contact tracing completamente ripensato che fosse in grado di confrontarsi con un virus che corre molto veloce. Abbiamo messo insieme medici, personale tecnico, infermieri e membri della comunità, e ad ognuno di loro erano assegnati più ruoli: addetti al contact tracing, registri di tracciamento, investigators, visite a casa e valutazione clinica, se necessario». Si tratta dell’approccio “porta a porta” che è stato ampiamente descritto dal New England Journal of Medicine.
Le riflessioni sul sistema indiano intercettano in larga parte il dibattito sulla riforma sanitaria che si era acceso all’indomani della prima ondata dell’epidemia da Covid-19:«Il nostro sistema, qui, è una felice intersezione fra un livello centralizzato e un approccio comunitario. L’Indian Health Service è un’agenzia nazionale divisa in regioni di competenze che imposta ospedali inseriti nella comunità nativo-americana. Abbiamo una linea di budget nazionale che ci fornisce delle risorse, ma le persone che lavorano nell’ospedale provengono dalla comunità nativa, sono di qui e questo garantisce un alto livello di affezione. Senza l’inserimento in un network nazionale per noi sarebbe difficile avere le risorse e le forniture di cui abbiamo bisogno – continua lo specialista -, ma una volta che le riceviamo siamo poi autonomi».
Il che significa anche poter costruire una ottima sintesi fra approccio sanitario medico-scientifico e approccio tradizionale alla salute: «Gli indiani d’America sono divisi in centinaia di migliaia di tribù – continua Ryan Close -. Ognuno dei nostri operatori sul territorio degli Stati Uniti deve tenere conto di diversi approcci, di differenti risposte per differenti comunità. Ogni struttura qui, inclusa la nostra, deve trovare il modo per rispettare le pratiche della tribù. Gli Apache hanno il loro approccio alla vita, hanno il loro approccio alla salute, hanno il loro approccio all’educazione dei bambini, allora come facciamo? Parliamo. Parliamo con i capitribù, ci mettiamo seduti e diciamo quello che abbiamo da dire, abbiamo una discussione franca sui problemi e lavoriamo insieme perché abbiamo lo stesso obiettivo, ovvero migliorare la salute di chi proviamo ad aiutare», spiega, dall’Arizona, il giovane medico che, precisa, «in nessun modo è di origine nativo-americana».