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Baldi (genetista): «Facendo un prelievo ematico ad una donna in gravidanza è possibile isolare il DNA fetale ed analizzarlo attraverso la tecnica Next Generation Sequence (NGS). Il Test prenatale non invasivo offre informazioni sul cariotipo fetale, sui cromosomi e su alcune malattie monogeniche»
Nascerà sano? Godrà di buona salute? Sono questi i principali interrogativi che assillano le coppie in dolce attesa. Oggi, grazie ai numerosi progressi scientifici nell’ambito della diagnostica, è possibile avere molte risposte ancor prima che il neonato venga alla luce. La diagnosi prenatale può essere invasiva o non invasiva. Quella invasiva prevede il prelievo di tessuti embrionali o fetali – attraverso villocentesi, amniocentesi e cordocentesi – per evidenziare la presenza di eventuali anomalie cromosomiche o malformazioni. Le tecniche non invasive comprendono il test combinato (Bi-test) e il Test prenatale non invasivo (NIPT – Non Invasive Prenatal Test). Ai microfoni di Sanità Informazione, la dottoressa Marina Baldi, genetista, approfondisce i dettagli della diagnostica prenatale non invasiva.
La tecnica più datata di diagnosi non invasiva, utilizzata già da molti anni, è il Bi-test, effettuato sul sangue materno, in associazione ad un esame ecografico. «Attraverso analisi ematiche vengono valutati i valori di due proteine placentari presenti nel sangue della gestante: la free beta Hcg e la PAPP-A – dice Baldi -. Entrambi i risultati vengono poi correlati agli esiti della translucenza nucale, una misurazione, tramite ecografia, del liquido interstiziale nucale presente nel feto. Questi due esiti combinati offrono delle indicazioni sull’eventuale presenza di anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down, le trisomia 13 e 18, e le sindromi di Turner e di Klinefelter – aggiunge la genetista -. Si tratta di un test statistico con una valenza piuttosto limitata, molto utilizzato in passato, quando ancora non esistevano metodologie di diagnosi prenatale non invasiva più attendibili, soprattutto tra le donne più giovani e durante gravidanze considerate non a rischio», sottolinea l’esperta.
Oggi, grazie al Test prenatale non invasivo è possibile ottenere notizie molto più utili e accurate sulla salute fetale. Il Test prevede l’analisi del solo sangue materno e sfrutta nuove tecniche di biologia molecolare. «Facendo un prelievo ematico ad una donna in gravidanza è possibile isolare il DNA fetale ed analizzarlo attraverso la tecnica Next Generation Sequence (NGS) – spiega la specialista -. Questa metodologia permette di sequenziare i piccoli frammenti di Dna che derivano dalla placenta e che circolano nel sangue materno, offrendo informazioni sul cariotipo fetale, sui cromosomi e su alcune malattie monogeniche (patologie causate da mutazioni, ovvero alterazioni di un singolo gene che si trova all’interno di uno specifico cromosoma, ndr).
Il Test prenatale non invasivo è estremamente attendibile: «A seconda della tipologia di patologia che si ricerca è possibile ottenere risultati affidabili fino al 99%. Ma, nonostante l’accertata attendibilità, in Italia il Test prenatale non invasivo è tuttora validato come test di screening e non diagnostico. Per questo, in caso di positività la donna potrà sottoporsi gratuitamente ad una diagnosi prenatale invasiva (villocentesi o amniocentesi, a seconda del periodo gestazionale), per avere l’assoluta certezza dell’anomalia riscontrata attraverso le tecniche non invasive.
Gli esami del DNA fetale non sono tutti uguali. Ne esistono diversi livelli: «Si va da quello base, che analizza i cromosomi principali – 13, 18 e 21 – e i cromosomi sessuali, fino ad altri di livello superiore che analizzano l’intero cariotipo, ovvero l’assetto cromosomico in base a numero, forma e dimensione dei cromosomi, e le principali microdelezioni – spiega Baldi -. Un esame ancora più approfondito del DNA fetale permette anche di individuare la presenza di circa trenta patologie monogeniche, tra cui la fibrosi cistica».
Ma come fa una coppia a decidere quale tipologia di esame scegliere? «Prima di effettuare un test sul DNA fetale, consigliato tra l’undicesima e la tredicesima settimana di gestazione – spiega la specialista – , è necessario sostenere un colloquio con il genetista. Si parte da un’anamnesi familiare, per stabilire l’eventuale presenza di particolari rischi legati alla genetica, per poi controllare eventuali analisi genetiche pregresse, già effettuate dai futuri genitori. Dopo una valutazione globale delle informazioni raccolte, il genetista proporrà il livello del test più adeguato alle esigenze familiari, cosicché – conclude Baldi – la coppia possa procedere ad una scelta consapevole».
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