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L’amiloidosi hATTR si associa a 20 varianti del gene TTR delle 100 note, alcune delle quali sono più frequenti in alcune aree geografiche. Quali sono?
Scoperta in Portogallo negli anni ’50 del secolo scorso, ma ormai diffusa in tutto il mondo con circa 50 mila persone affette, in Italia l’amiloidosi hATTR si associa a oltre 20 diverse varianti del gene TTR delle 100 note, alcune delle quali raggiungono una maggiore frequenza in ristrette aree geografiche. «La differente frequenza dell’amiloidosi nel nostro Paese – spiega Giuseppe Vita, direttore della UOC Neurologia e malattie Neuromuscolari, del Policlinico “G. Martino” di Messina – è stata confermata dall’unico studio epidemiologico italiano condotto recentemente e coordinato dall’università di Messina».
Si tratta di una malattia genetica rara, progressivamente debilitante che spesso esordisce anche in giovane età (in media dai 30 anni), con un impatto importante sulla vita dei pazienti e delle loro famiglie. «L’amiloidosi ereditaria – spiega Vita – è una patologia multisistemica, progressivamente invalidante, che colpisce i nervi periferici causando difficoltà deambulatorie e di utilizzo degli arti inferiori, ma coinvolge anche il cuore, l’apparato gastrointestinale e quello genitourinario. I sintomi differiscono a seconda della variante genetica associata». A causa della rapida progressione naturale della malattia, è fondamentale una diagnosi precoce e accurata.
«La patologia è maggiormente diffusa in Sicilia, in Calabria e in alcune zone endemiche più ristrette come l’Appennino tosco-emiliano. Per comprendere appieno l’alta incidenza – sottolinea il professore – è sufficiente pensare che mentre la prevalenza della patologia a livello nazionale è di 4,4 casi su un milione, in Sicilia raggiunge quasi i 10 casi su un milione di abitanti. E questa maggiore incidenza è determinata da precisi fattori genetici».
«In Italia – precisa il docente – a causa delle diverse varianti della patologia, il ritardo diagnostico raggiunge anche i 4-5 anni. Fino allo scorso decennio le diagnosi erano sempre infauste e le previsioni di sopravvivenza non superiori ai 10 anni. Negli anni ’90, poi, è stata proposta una terapia invasiva che prevedeva il trapianto del fegato, efficace solo per alcune specifiche mutazioni genetiche. Soltanto nel 2012 è stato approvato il primo farmaco specifico per questa patologia, in grado di rallentare la precipitazione di amiloide nei tessuti. Quest’anno, infine, sono entrati in commercio due nuovi farmaci in grado di bloccare la malattia e, forse, anche di fermarne la progressione. Ma affinché queste terapie possano avere l’efficacia sperata è necessario che la somministrazione cominci quanto prima. Solo la diagnosi precoce può fare la differenza. Per questo – conclude Vita – è necessario che la conoscenza di questa malattia sia diffusa quanto più possibile anche tra i medici di medicina generale».
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