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In Italia la labiopalatoschisi colpisce 600 nuovi nati all’anno, un quinto dei quali sono seguiti al Bambino Gesù di Roma. I ricercatori dell’ospedale della Santa Sede impegnati nella sperimentazione dell’utilizzo di cellule staminali autologhe (cioè del paziente) per la ricostruzione del palato duro
Si chiama labiopalatoschisi e significa letteralmente labbro e palato divisi. Più comunemente nota come labbro leporino, si tratta di una malformazione congenita che si presenta con un’interruzione che coinvolge (in combinazione o singolarmente) il labbro superiore, la gengiva e il palato. L’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma sta mettendo a punto l’utilizzo delle cellule staminali per la ricostruzione ingegnerizzata del palato. Ogni anno in Italia nascono circa 600 bambini con labiopalatoschisi, un quinto dei quali seguiti dall’Ospedale della Santa Sede.
La labiopalatoschisi è la più comune anomalia congenita del cranio e del volto: in Europa ne soffre 1 bambino su 700. È caratterizzata da una comunicazione diretta tra naso e bocca. Nella maggior parte dei casi la labiopalatoschisi è monolaterale (destra o sinistra) e in un terzo dei casi è bilaterale. Le cause del labbro leporino sono sconosciute. Si ritiene che siano multifattoriali, ovvero che sia riconducibile a una combinazione di fattori genetici e ambientali.
In caso di labiopalatoschisi completa, il protocollo chirurgico del Bambino Gesù prevede un unico intervento chirurgico all’età di 6 mesi in cui si ricostruiscono il labbro, il naso, il palato anteriore (duro) e il palato posteriore (molle). Ogni anno al Bambino Gesù vengono presi in cura circa 120 nuovi casi e altrettanti giovani pazienti che hanno iniziato il trattamento in altri ospedali. Si tratta della più ampia casistica nazionale. Il 64% dei nuovi casi proviene da fuori regione. Attualmente sono seguiti in follow-up oltre 2mila bambini e ragazzi colpiti dalla malformazione.
I ricercatori dell’Ospedale stanno mettendo a punto l’utilizzo di cellule staminali autologhe (cioè del paziente) per la ricostruzione del palato duro. Attualmente l’intervento ricostruttivo viene effettuato utilizzando un innesto di periostio tibiale prelevato chirurgicamente dalla tibia del paziente. Con la nuova tecnica invece il palato duro verrebbe creato facendo crescere le cellule staminali del paziente su un apposito supporto (scaffold). Una volta creato il palato, verrebbe quindi impiantato.
I vantaggi della nuova tecnica sono molteplici. Innanzitutto si eviterebbe di prelevare il tessuto necessario alla ricostruzione del palato da un’altra parte del corpo. Il palato così creato sarebbe poi perfettamente compatibile, cioè con un impatto nullo dal punto di vista immunogenico. La sperimentazione ha già superato la fase in vitro e si sta attualmente lavorando per la fase successiva. I risultati della sperimentazione in vitro sono stati pubblicati dalla rivista scientifica Scientific Reports.
Nella labiopalatoschisi l’impatto estetico-funzionale e psicologico è forte, il percorso terapeutico è molto impegnativo, dura 18-20 anni e, nelle situazioni più complesse, è caratterizzato da una lunga serie di interventi chirurgici. Per questo motivo è importante che le famiglie e i pazienti siano sostenuti e accompagnati dalla diagnosi prenatale fino al termine delle cure presso un unico Centro di riferimento e da un team di specialisti – dal chirurgo plastico allo psicologo – che si occupi di ogni aspetto della patologia.
«Grazie ai progressi della medicina oggi un bambino che nasce con labiopalatoschisi raggiunge quasi sempre una ottima qualità di vita – spiega il dottor Mario Zama, responsabile dell’unità operativa complessa di chirurgia plastica e maxillofacciale del Bambino Gesù –. Per alcuni di loro però anche la piccola cicatrice che resta tra il labbro e il naso rappresenta un ricordo costante della malattia e di quello che ha comportato. Come se non fossero mai guariti del tutto. Per questo motivo è fondamentale il rapporto con le famiglie e il lavoro svolto dalle associazioni genitoriali. È il modo più efficace per non farli sentire soli, per testimoniare che si è parte di una più ampia famiglia acquisita in cui – conclude – tutti condividono la stessa esperienza di vita».
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