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Secondo l’Oms sono almeno 17 milioni le persone che ne soffrono solo in Europa. Quali sono i sintomi più comuni e come intervenire in caso di danni neurologici?
La pandemia da Covid-19 è finita ufficialmente il 5 maggio scorso, quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza sanitaria che durava da poco più di tre anni. E se è vero che il Sars-CoV-2 circola ancora, le nuove varianti del virus destano molta meno preoccupazione rispetto al ceppo originario e alle sue mutazioni immediatamente successive. Ciò non vale però per gli “effetti avversi” che in molti casi si sono sviluppati in una grossa fetta della popolazione contagiata nel corso di questi anni. Parliamo del Long-Covid, ovvero di quella situazione patologica che continua a provocare danni prolungati nel tempo anche in persone che si sono nel frattempo negativizzate.
Il Long-Covid è una materia ancora in fase di approfondimento, tant’è che continuano ad accumularsi studi e pubblicazioni. Gli ultimi in ordine di tempo riguardano alcuni sintomi neurologici (come nebbia cerebrale, disturbi del sonno, difficoltà a concentrarsi, ecc.) i quali, secondo uno studio dei ricercatori del National Institutes of Health, potrebbero essere segnali che il sistema immunitario non funziona a dovere, o anche che bassi livelli di vitamina D sono associati a un maggior rischio di soffrire di Long-Covid (secondo quanto emerge da uno studio italiano, condotto dagli scienziati dell’Irccs ospedale San Raffaele e dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano).
Secondo l’Istituto superiore di sanità, il Long-Covid è «quella condizione di persistenza di segni e sintomi che continuano o si sviluppano dopo un’infezione acuta da Sars-CoV-2». Se i sintomi continuano a manifestarsi anche dopo le quattro settimane dall’infezione fino a 12 settimane, si parla di malattia Covid-19 sintomatica persistente. Se invece i sintomi si prolungano per più di 12 settimane e non possono essere spiegati da nessun’altra condizione, si parla di sindrome post-Covid. «Il Long-Covid – spiega l’Iss – include entrambe queste condizioni».
I soggetti più esposti al Long-Covid sono le donne, gli anziani, persone sovrappeso o obese e chi è stato ospedalizzato dopo aver contratto il virus. In quest’ultimo caso, secondo l’Istituto vi è «un’apparente correlazione con il numero delle patologie croniche preesistenti e con la gravità degli interventi richiesti (es. ricovero in terapia intensiva). La suscettibilità sembra, inoltre, aumentare con il numero di sintomi nella fase acuta (in particolare con la dispnea) ma l’associazione con la loro gravità non è ancora chiaramente definita».
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Secondo gli ultimi dati forniti dall’Oms, sarebbero almeno 17 milioni le persone ad aver sperimentato il Long-Covid in Europa nei primi due anni di pandemia ed è probabile che diversi milioni dovranno convivere con i sintomi per molti anni a venire. E mentre le donne hanno il doppio delle probabilità rispetto agli uomini di soffrirne (possono esserne colpiti 1 donna su 3 e 1 uomo su 5 possono), il rischio cresce «drammaticamente» per chi ha contratto una forma grave di malattia, tale da richiedere il ricovero in ospedale.
«Anche se c’è ancora molto da imparare sul Long-Covid – ha dichiarato Hans Henri P. Kluge, Direttore regionale dell’Oms per l’Europa – in particolare su come si presenta nelle popolazioni vaccinate rispetto a quelle non vaccinate e come influisce sulle re-infezioni, questi dati evidenziano l’urgente necessità di ulteriori analisi, più investimenti, più sostegno e più solidarietà con coloro che soffrono di questa condizione». Kluge ha poi aggiunto che «milioni di persone nella nostra regione, a cavallo tra Europa e Asia centrale, soffrono di sintomi debilitanti molti mesi dopo la loro iniziale infezione da covid. Non possono continuare a soffrire in silenzio». Ed è per questo che, secondo il Direttore regionale dell’Oms Europa, governi e partner sanitari «devono collaborare per trovare soluzioni basate su ricerche e prove».
Il Long-Covid include manifestazioni cliniche eterogenee. Una persona che soffre di questa condizione può presentare uno o più sintomi generali che possono essere a carico di determinati apparati e organi. È sempre l’Istituto superiore di sanità a elencarli.
Come spiegato nel corso di formazione “Covid-19: dalla polmonite interstiziale alle sequele a lungo termine”, presente sulla piattaforma Consulcesi Club (9 crediti ECM, responsabile scientifico prof. Giuseppe Petrella dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), uno degli aspetti più preoccupanti del Long-Covid riguarda le sue manifestazioni a livello neurologico. Queste possono riguardare sia il sistema nervoso centrale che quello periferico. Possono, inoltre, sopravvenire complicanze della fase acuta dell’infezione da Covid-19 con possibile danno neurologico permanente.
In caso di stroke ischemico o emorragico, encefalopatia ipossica, debolezza muscolare secondaria a malattia acuta, sindrome di Guillain-Barrè ed encefalite, è necessario valutare il grado di deficit residuo e l’impatto sullo stato funzionale del paziente per procedere poi a un programma riabilitativo. In caso di debolezza muscolare o parestesie procedere con elettromiografia ed elettroneurografia (metodiche neurofisiologiche utilizzate per studiare la funzionalità del sistema nervoso periferico). In caso di cefalea procedere con diagnosi differenziale e la somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans), analgesici e triptani. Passando poi al deficit di concentrazione, attenzione e memoria, valutare la presenza di eventuale deficit cognitivo con Montreal Cognitive Assessment o Mini Mental State Examination, riabilitazione neurologica e psicoterapia cognitivo-comportamentale e, infine, terapia con farmaci idonei. Da ultimo, per quanto riguarda i disturbi del gusto e dell’olfatto, si tratta in genere di forme lievi che tendono ad autolimitarsi. In ogni caso, è bene procedere con programmi di educazione al cibo e training olfattivo.
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