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La sopravvivenza è di circa il 69,7% a 1 anno dal trapianto e di circa il 47% a 5 anni. L’intervista al chirurgo toracico Nosotti: «Un salvavita per chi soffre di insufficienza respiratoria»
Ogni anno, in Italia, sono poco più di 100 i trapianti di polmone, circa 2 mila in Europa 4.500 nel mondo. «Le cifre sono limitate sia dall’estrema delicatezza di questa tipologia di trapianto che dallo scarso numero di polmoni utilizzabili», spiega Mario Nosotti, professore associato e direttore della Scuola di Chirurgia Toracica e Trapianti Polmone all’Università degli studi Milano.
I trapianti di polmone sono di solito trattamenti salvavita per pazienti con insufficienza respiratoria cronica: «Sono circa un centinaio le patologie che la causano ed alcune di queste sono molto rare. Le più frequenti sono la fibrosi polmonare, l’enfisema polmonare e la fibrosi cistica. Anche se – sottolinea Nosotti -, negli ultimi anni, grazie ad una terapia farmacologica innovativa efficace, i pazienti con fibrosi cistica hanno ricominciato a respirare bene e non necessitano più di un trapianto. In tutti gli altri casi, il trapianto di polmone rappresenta l’ultima possibilità di cura, soprattutto se i precedenti trattamenti non sono risultati efficaci e l’aspettativa di vita è breve».
Per accedere ad un trapianto è necessario che il paziente non soffra di altre patologie importanti come tumori o gravi infezioni. Il candidato deve essere in grado di tollerare un intervento di alta chirurgia e le successive terapie farmacologiche. «Quando è disponibile un donatore – aggiunge Nosotti – va innanzitutto valutata, sulla base di esami di laboratorio e strumentali, l’idoneità dei polmoni al trapianto. Poi, si procederà ad individuare la persona più adatta a ricevere quel determinato organo, basandosi su alcuni fattori di compatibilità: gruppo sanguigno, peso, altezza, età, sesso».
La sopravvivenza è di circa il 69,7% a 1 anno dal trapianto e di circa il 47% a 5 anni. Tra i pazienti che hanno ricevuto il trapianto l’80% torna al lavoro o ad una vita normale (dati Iss). Le principali complicanze, oltre a quelle chirurgiche che possono verificarsi nel corso anche di comuni interventi, sono le infezioni e il rigetto. «Le infezioni possono manifestarsi nei 12 mesi successivi al trapianto poiché il paziente, sottoposto a specifiche terapie, è immunodepresso», dice lo specialista. Dalle prime ore successive al trapianto, infatti, per prevenire gli episodi di rigetto, viene somministrata al paziente una terapia specifica immunosoppressiva che dovrà essere seguita per tutta la vita. «Superati gli ostacoli del primo anno, potrà poi verificarsi un altro importante problema: il rigetto cronico, tuttora al centro di studi scientifici che – conclude Nosotti – mirano alla ricerca di una soluzione che possa contenere o risolvere tale reazione avversa».
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