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Cerana (ACTO Italia): «Il carcinoma ovarico è ancora oggi tra i tumori più gravi a causa della sua elevata mortalità, legata soprattutto alla mancanza di strumenti di screening o di diagnosi precoce»
Con il termine “tumore ovarico” si intendono tutti i tumori che originano dalle ovaie (gli organi femminili responsabili della formazione degli ovuli), dalle tube di Falloppio (che connettono le ovaie con l’utero) e dal peritoneo (il rivestimento della parete e degli organi addominali), sebbene questi siano organi differenti. I tumori ovarici vengono classificati in base alle cellule da cui originano e i più frequenti sono i tumori epiteliali. Tra i tumori ovarici epiteliali, il sottotipo più comune è quello sieroso di alto grado. «Il carcinoma ovarico è ancora oggi tra i tumori più gravi a causa della sua elevata mortalità, legata soprattutto alla mancanza di strumenti di screening o di diagnosi precoce e alla presenza di sintomi poco riconoscibili, motivi per cui viene diagnosticato in fase avanzata in circa l’80% dei casi», spiega Nicoletta Cerana, Presidente ACTO Italia, in un’intervista a Sanità Informazione.
Il tumore ovarico viene considerato relativamente raro: «Si stima che colpisca ogni anno più di 5mila donne (5.200 nel 2020, ultimo anno per cui esistono dati) e che in Italia vi siano circa 50mila donne viventi dopo una diagnosi. Nella popolazione femminile è comunque l’ottava neoplasia più frequente. Può colpire a tutte le età, con un aumento dell’incidenza dopo la menopausa, tra i 50 e i 69 anni. Tende però a comparire più precocemente nelle portatrici di mutazioni a carico dei geni BRCA 1 e 2, che rappresentano circa il 25% dei casi», aggiunge Cerana.
I sintomi sono generici e vengono spesso confusi con quelli di altre patologie, come la sindrome del colon irritabile. I più comuni sono: gonfiore persistente dell’addome, fitte addominali, bisogno frequente di urinare, inappetenza e/o sensazione di sazietà anche a stomaco vuoto, perdite di sangue vaginali (in assenza di ciclo mestruale), comparsa di stitichezza o diarrea. Quando questi sintomi compaiono frequentemente o sono persistenti è importante rivolgersi al ginecologo.
Tra i fattori di rischio troviamo: età, familiarità per tumore dell’ovaio, della mammella, dell’utero, dell’intestino. Altri tumori pregressi agli stessi organi, alterazioni genetiche ereditarie (mutazioni del gene BRCA1 possono aumentare il rischio di sviluppare il tumore di circa il 40-50%, mentre mutazioni del gene BRCA2 possono aumentarlo del 10-30%. Tra i fattori protettivi troviamo: assunzione della pillola anticoncezionale per un periodo di almeno 4 anni in giovane età, associata a una riduzione del 50% del rischio di malattia; gravidanze.
Al di là di mantenere uno stile di vita corretto e dell’assunzione della pillola anticoncezionale, le uniche possibili strategie di prevenzione oggi riguardano le portatrici sane di mutazioni predisponenti al tumore ovarico (chirurgia profilattica). Il primo passo per la diagnosi è la visita ginecologica con ecografia pelvica (o transvaginale), che può dare una prima importante indicazione. Un secondo passo è il dosaggio del marcatore tumorale CA125, effettuato con un semplice prelievo di sangue. Possono seguire ulteriori indagini, tra cui TAC, Risonanza magnetica e PET.
Stadi iniziali
Stadi avanzati
Il trattamento prevede quasi sempre l’intervento chirurgico – che può essere molto complesso, a seconda dell’invasività del tumore, e che quindi richiede la presenza di un’équipe chirurgica specializzata – e la chemioterapia. Nella malattia in stadio precoce, la chirurgia risulta curativa nel 70% dei casi. Se il tumore è in stadio avanzato, invece, i dati indicano che circa l’80% delle pazienti hanno una recidiva entro tre anni dalla fine della chemioterapia. Negli ultimi anni è stata quindi introdotta una terapia di mantenimento per contenere il rischio di recidiva. Tale terapia si basa sui farmaci anti-angiogenici (che ostacolano la formazione di nuovi vasi sanguigni) e su farmaci a bersaglio molecolare chiamati PARP inibitori (da Poly ADP-ribose polymerase). Oggi è noto che circa la metà dei tumori sierosi di alto grado presenta “difetti” genetici chiamati Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD, dall’inglese Homologous Recombination Repair) che li rende maggiormente sensibili sia alla chemioterapia con platino-derivati sia ai PARP inibitori.
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